sabato 13 dicembre 2014

mafia capitale: il privato è il problema, non la soluzione


Che nei decenni scorsi Roma fosse controllata da poteri mafiosi ci voleva poco a capirlo.

Basterebbe farsi un viaggetto in città come Lisbona, Madrid o Atene (senza scomodare le varie Londra, Berlino e Parigi) per rendersene conto: lì abbiamo città relativamente pulite, infrastrutture moderne, servizi efficienti, a cominciare dal trasporto pubblico (Atene forse non tanto, ma comunque sempre meglio di Roma).

A confronto di città come Madrid, Roma assomiglia molto più a Calcutta o al Cairo: caos, sporcizia, traffico, disordine, scarso rispetto del codice stradale, mezzi pubblici sempre pienissimi (quando si degnano di passare), poca attendibilità delle indicazioni e degli orari, ecc.



In effetti dà da pensare il fatto che a Madrid sono bastati 3 anni di lavori per costruire una nuova linea metropolitana di ben 30 stazioni, mentre a Roma ci sono voluti 7-8 anni per prolungare la linea A da Ottaviano a Battistini (5 fermate) e altrettanti per la linea B, da Piazza Bologna a Conca d'Oro (3 fermate), nonostante che entrambe le tratte si trovassero in zone di Roma praticamente prive di rovine archeologiche. Taccio per pudore sulla linea C.



Eppure a Roma girano sicuramente molti, ma molti più soldi che in città quali Madrid, Lisbona o Atene. Dove vanno a finire tutte queste immense risorse? Evidentemente in mani private (e buona parte anche alla Chiesa Cattolica, per la verità).



Non mi dilungo su tutto il vastissimo sviluppo del mondo della corruzione romana, anche perchè forse non basterebbe un intero libro per renderne conto in modo esaustivo. E comunque è compito della magistratura farlo.

Ma alcune considerazioni politiche andrebbero fatte:



  1. non è vero che "sono tutti uguali".

Il mio non vuole certo essere un goffo tentativo di difendere la "sinistra" (anche perchè non ho mai considerato tale il PD, fin dalla sua nascita).

E' ovvio che "mafiopoli" a Roma esiste da decenni e ha tranquillamente prosperato sotto i mandati di Rutelli e di Veltroni, coinvolgendo non pochi esponenti dell'attuale PD.

Anche se c'è da rilevare che con Alemanno tale sistema di governo corrotto si è sviluppato al massimo e s'è aggravato e generalizzato come mai prima.


Contro ogni retorica anti-partito, ci sono dei partiti che sono rimasti del tutto estranei a tali pratiche, come Rifondazione Comunista (lo stesso Luigi Nieri, che peraltro non risulta nemmeno indagato, è uscito nel 2008 dal PRC e ora si trova in SEL).

Non solo: sia Rifondazione Comunista che il PdCI hanno ripetutamente denunciato tali illegalità negli anni scorsi, ma sono rimasti inascoltati.



  1. il privato è il problema e non la soluzione

Come è tipico di un paese provinciale, come l'Italia -dove anche nei grandi capitalisti domina una mentalità da bottegaio furbetto- subito si approfitta dell'inchiesta su mafia capitale, per riproporre le solite privatizzazioni, in questo caso delle aziende municipalizzate (come se le privatizzazioni non avessero già fatto troppi danni, vedi Telecom, Alitalia, Trenitalia, ILVA, ecc.).



Ma oggi non siamo più negli anni 80-90, ai tempi di Tangentopoli: allora chi rubava, lo faceva per il partito. Oggi chi intasca illecitamente soldi, lo fa per sè (o al massimo per la propria cricca o clientela).

Le privatizzazioni porteranno ulteriormente acqua al mulino dei vari Caltagirone, ossia, di aziende che faranno profitti elevati, licenziando migliaia di lavoratori (è questo il primo biglietto da visita del privato), e soprattutto erogando servizi in funzione del solo rendimento economico.

Ossia, tradotto: se l'utenza avrà soldi da spendere, otterrà un servizio discreto, se non può farlo si dovrà accontentarne di uno pessimo, o di nessun servizio proprio (ad esempio, quartieri periferici popolari rimarrebbero praticamente privi di trasporto pubblico).

Le privatizzazioni faranno la felicità proprio dei vari Buzzi (ossia, finte cooperative, ma di fatto aziende capitaliste) e degli altri affaristi più o meno corrotti.

Di solito, poi, quando si privatizza, la parte più onerosa del servizio, e anche quella meno redditizia, rimane in mano pubblica (cioè a spese nostre).





Le privatizzazioni sarebbero dunque un rimedio peggiore del male.

Ciò perchè in realtà "mafia capitale", a differenza di ciò che comunemente si crede, non è il risultato della semplice disonestà delle persone. E' proprio il modo in cui di solito il capitalismo funziona, nelle sue aree periferiche.
La corruzione generale e le varie mafie del Sud Italia sono state il prodotto di politiche che dall'Unità d'Italia hanno sempre favorito il Settentrione (e in modo particolare il triangolo industriale) a scapito del resto dell'Italia.

La cosa s'è poi aggravata per il fatto che dal '45 siamo -di fatto- una semi-colonia americana (la mafia siciliana è prosperata nel dopoguerra proprio grazie agli USA).



Solo il pubblico controllato può e deve ovviare al sistema di corruzione imperante a Roma e in Italia. E per questo serve che il popolo deve partecipare attivamente alla politica e non disinteressarsene.

Il più grande successo dei politici (e imprenditori) disonesti si ha proprio quando "la gente" si allontana dalla politica dicendo "tanto sono tutti ladri".

lunedì 1 dicembre 2014

Malcontento, criminalità, degrado, immigrazione.

A scanso di equivoci, dico subito che concetti quali "buonismo" o "tolleranza" non mi appartengono. E a ben vedere non appartengono praticamente a nessuno.
Se di tolleranza si può parlare, in Italia, è quella che c'è sempre stata verso l'illegalità in genere (siamo pur sempre il paese dell'evasione fiscale, dell'abusivismo edilizio e delle grandi organizzazioni criminali, e altro ancora).


In realtà, più che essere "buono" o "tollerante", chi governa dovrebbe, secondo me, fare qualcos'altro: studiare i vari fenomeni problematici (criminalità, ecc) per capire come intervenire in modo adeguato. Altrimenti rischiamo di scadere nei soliti slogans, tanto suggestivi, quanto demagogici e irrealistici, quali "tolleranza zero". Oppure si approvano leggi, quali la Bossi-Fini, improntati alla repressione, e che addirittura introducono il reato di clandestinità, ma con i risultati che abbiamo sotto i nostri occhi.
Contrariamente all'apparenza, diversi dati statistici dimostrano che immigrazione e delinquenza sono fenomeni che hanno poco a che fare l'uno con l'altro. Anche se in parte si intersecano.


Cominciamo dal primo fenomeno: l'immigrazione.
Intanto la prima cosa da rilevare è che la percezione comune degli italiani sugli immigrati è fortemente distorta dalla realtà dei fatti, e risente di numerosi pregiudizi e stereotipi.
In un sondaggio recente, infatti, gli intervistati ritengono -in media- che la percentuale di extracomunitari rispetto al totale della popolazione residente in Italia sia intorno al 30%. Nella realtà essa è del 7% (una differenza molto significativa).
Anche la percentuale degli islamici è fortemente sopravvalutata, rispetto alla reale consistenza. La stragrande maggioranza degli immigrati, inoltre, lavora e quelli che delinquono sono una infima minoranza (ma che purtroppo fa tantissima notizia).
Tra l'altro non risulta che ci sia stato un aumento significativo degli eventi criminali negli ultimi 25 anni (periodo del boom dell'immigrazione).


La percezione diffusa -in Italia- rispetto all'immigrazione è poi fortemente condizionata da una sterminata serie di "notizie" – riportate quasi sempre in modo scorretto e distorto, quando non proprio inventate di sana pianta- e bufale varie, che girano ad esempio, sui social network (soprattutto facebook), le quali cercano di suscitare indignazione sulla gente, fantasticando improbabili servizi, alloggi o sussidi che sarebbero elargiti generosamente agli immigrati (perfino clandestini), e negati agli italiani.
Si tratta di fantasie allo stato puro, eppure credute per vere da non poche persone, e sulle quali le varie forze di destra, in mancanza di argometi più seri, tentano di costruire i loro successi, speculando sulla creduloneria della gente.


Molti italiani si domandano: "ma perchè non se ne stanno/tornano a casa loro?"
La risposta è che secondo me la stragrande maggior parte degli extracomunitari ritornerebbero molto volentieri "a casa loro" se ce ne fossero le condizioni: ossia, se i paesi ricchi (inteso ovviamente le grandi multinazionali e il potere finanziario) la smettessero di sfruttare pesantemente le risorse dei loro paesi, condannandoli al sottosviluppo, e, come se già non bastasse, fomentando continuamente conflitti vari, per accaparrarsi delle loro ricchezze, oltre che per arricchire le grandi lobbies delle armi.


Passiamo alla criminalità.
Ovviamente il tema è vastissimo e complesso, per con cui poche righe si può farne sono una breve e non esaustiva sintesi.
Intanto andrebbe premesso che in Italia i fenomeni criminali (e l'illegalità in generale) sono stati storicamente molto "tollerati" (quando ancora di immigrati non se ne vedeva nemmeno l'ombra). Non a caso siamo, tra l'altro, la patria delle varie organizzazioni mafiose. A mio modesto parere, se si vuole contrastare seriamente la criminalità, occorre agire -molto sinteticamente- su due versanti: da una parte, le istituzioni dovrebbero intervenire per eliminare il più possibile le condizioni di degrado e di emarginazione sociale e lavorativa, garantendo a tutti i cittadini la possibilità CONCRETA di guadagnarsi da vivere onestamente.
A quel punto -ed è il secondo versante- la legge può, anzi deve intervenire in modo inflessibile ed efficace contro chiunque commetta atti criminali (altrochè "buonismo").


Infatti, se è inutile punire, ad esempio, un ladro, quando questo non ha altri mezzi per poter sopravvivere, diventa assolutamente necessario farlo nel momento in cui egli ha la possibilità effettiva di vivere onestamente, lavorando.
Quando poi si ha a che fare con la grande criminalità organizzata, lì occorrerebbe intervenire in modo pesante.
Ma non certo -come si fa da noi- in modo "scenografico", tipo mandando l'esercito per le strade (non ne vedo proprio l'utilità). Bensì colpendo tali organizzazioni soprattutto a livello economico e soprattutto colpendo "in alto". Serve a poco arrestare i piccoli pesci, facilmente sostituibili.


Tornando al nesso criminalità-immigrazione -fenomeno, come già detto, molto più limitato di quanto appaia- vanno quantomeno distinte due tipologie di casi (in realtà sarebbero di più, ma mi attengo ai casi più frequenti):
Tra gli immigrati ci sono i delinquenti "incalliti", ossia, quelli che erano già tali al paese loro, prima di venire in Italia. E lì sì, che servirebbe un intervento in modo deciso.
Ma non sempre è facile: alcuni di loro godono di qualche forma di protezione, magari perchè legati a grandi organizzazioni criminali mafiose (italiane o internazionali), con agganci nelle istituzioni, o perchè comunque fanno comodo a qualche potente.
Molti delinquenti, poi, arrivano da noi grazie a veri e propri accordi tra lo Stato italiano e quello del loro paese di provenienza (di cui non si parla, per ovvi motivi; è il caso di numerosi criminali romeni).


Poi ci sono i ladruncoli diciamo "occasionali", ossia poveri disperati che rubicchiano per sopravvivere. Nella quasi totalità dei casi essi smettono di farlo non appena riescono a trovare un briciolo di lavoro.


In conclusione, tutto il malumore della popolazione contro il degrado e la delinquenza è perfettamente comprensibile.
Ma ciò è dovuto alla tendenza da parte delle istituzioni e del ceto politico (direi "bipartisan") a far politiche che privilegiano i ceti sociali più abbienti e -territorialmente- i quartieri più centrali (o residenziali) delle città. Mentre, al contrario, si scaricano tutti i problemi e l'incuria nelle zone dove abitano i ceti più proletari.
Poi, un po' l'ignoranza, un po' le speculazioni politiche delle destre, spingono molti cittadini esasperati a prendersela -a torto- contro gli immigrati (o contro i Rom).


Servirebbe un intervento appropriato (e non propagandistico) se si vuole veramente contrastare le condizioni di degrado e insicurezza. Ma temo che finchè domineranno le politiche liberiste -e finchè ci sarà capitalismo- sarà molto difficile: le condizioni di degrado, povertà, emigrazione (sia di italiani all'estero che di extracomunitari da noi), disoccupazione, sono connaturate al capitalismo.

mercoledì 12 novembre 2014

Crollo del Socialismo 2: aspettative e risultati.


Il Crollo del Muro di Berlino, così come un po' tutti gli eventi degli anni 89-91 accaduti nei paesi dell'Europa Orientale, e che hanno portato alla fine dell'esperimento di costruzione del socialismo in quei paesi, sono stati salutati con enorme entusiasmo nell'Occidente capitalistico (per "Occidente", intendo sostanzialmente Europa Occidentale e Stati Uniti).

Infatti, dopo decenni in cui il capitalismo era stato duramente contestato, messo in discussione e fortemente contrastato e limitato (non solo nei paesi a Socialismo Reale, ma anche nell'Occidente, grazie alle politiche sociali e di intervento statale nell'economia), ora toccava al socialismo essere non solo messo in discussione, ma proprio abbattuto.



E il bello era che questa volta la fine del socialismo non avveniva attraverso un colpo di Stato e l'instaurazione di una feroce dittatura, ossia, dall'alto. No: questa volta erano le stesse masse popolari che apparivano condannare il socialismo e sbarazzarsene definitivamente, per tornare al capitalismo. Maggiore successo mediatico per la borghesia e per l'Occidente capitalistico non poteva capitare.



Tale narrazione era troppo bella perchè qualche studioso o intellettuale nostrano si fosse presa la briga di andare ad indagare un po' più approfonditamente che cosa stava veramente accadendo in quei paesi. E infatti tuttora non risulta essersi prodotto uno studio serio sugli eventi dell'89-91 nei paesi dell'est (almeno non da noi).

Viceversa, si è voluto credere al refrain semplicistico e superficiale della "democrazia" o della "libertà" che trionfava sul "totalitarismo".

La massima teorizzazione di allora fu quella di Francis Fukuyama (politologo statunitense), il quale parlò allora di "fine della storia".

Le vicende degli anni successivi hanno brutalmente smentito tale incauta affermazione.



Fukuyama a parte, la speranza grossa di quegli anni era che, con il crollo del socialismo (visto come la fonte di tutti i mali) si sarebbe aperta una nuova era di pace, democrazia e progresso.





Pace?

La fine della guerra fredda ha visto la moltiplicazione delle guerre e dei vari conflitti (anche molto cruenti): dalle guerre nella ex Jugoslavia, all'Iraq (più volte), all'Afghanistan, alla Cecenia, alla Libia, alla Siria e all'Ucraina, per citare solo le guerre più note. A questi andrebbero aggiunti altri conflitti meno noti, soprattutto nel continente africano (Ruanda, Somalia, Sudan, Niger, Congo e altri ancora).

E' significativo che praticamente in tutti, dico tutti, questi conflitti sono coinvolti gli Stati Uniti -direttamente o indirettamente- e/o la Francia e/o la Gran Bretagna (e non di rado anche la stessa Italia). E ciò anche quando tali tensioni vengono fatti apparire dai nostri mass-media come problemi strettamente locali..



Dunque, la fine della guerra fredda non ha affatto pacificato il mondo, ma -al contrario- l'ha reso più violento e pericoloso.

Grazie soprattutto agli USA (e alle sue lobbies, ad esempio quella delle armi), che, non avendo più un'altra potenza con cui dover fare i conti, nei decenni scorsi hanno provato a fare il bello e il cattivo tempo un po' dappertutto.

Meno male che negli ultimi anni qualcosa sta cambiando, con l'emergere della Cina, della Russia di Putin e dei paesi del BRICS.



Questo per quanto riguarda la pace. E con il progresso e la democrazia? Cosa è cambiato in quest'ultimo quarto di secolo?

Il progresso occidentale si è arrestato con la fine della bolla informatica (bolla iniziata peraltro già prima dell'89) e con la crisi economica attuale.

Nei paesi dell'Est Europa, col ritorno al capitalismo è esplosa la povertà, la disoccupazione, l'incertezza sociale e l'emigrazione (come possiamo notare anche da noi) verso altri lidi.

I cosidetti "nuovi ricchi" -un'esigua minoranza- provengono un po' tutti dalla dirigenza politica degli ex Stati socialisti (il che la dice lunga sulla facilità e la tranquillità con cui sono avvenute le presunte "rivoluzioni" dell'89).

A proposito di progresso, va registrato invece che, paradossalmente, i paesi emergenti sono soprattutto la Cina (rimasta socialista, anche se con elementi di capitalismo controllato), il Brasile (che da più di un decennio sta rompendo con le politiche liberiste, introducendo politiche di welfare-state), il Venezuela (altro paese che va verso il socialismo) e altri ancora.



Democrazia:

nei paesi dell'ex Patto di Varsavia, a parte la Russia di Putin (che non so quanto possa definirsi "democratica"), gli altri paesi sono finiti un po' tutti (o quasi tutti) nell'orbita della NATO e dell'Unione Europea.

Nella NATO non esiste democrazia: sono gli Stati Uniti a farla da padrone.

L'Unione Europea è talmente "democratica" che le decisioni più importanti (e vincolanti per i paesi aderenti) non vengono prese dal Parlamento Europeo (eletto dai cittadini), bensì dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dal Consiglio Europeo (entrambi organismi non eletti dai cittadini).



Due parole anche sull'Italia, dato che da noi gli eventi dell'89 hanno avuto ripercussioni politiche molto più forti che negli altri paesi occidentali.

In modo particolare con la fine del Partito Comunista Italiano, e nei decenni successivi sempre più, il nostro paese ha visto l'esplosione dell'astensionismo elettorale, che è indice quantomeno di sfiducia da parte dei cittadini di poter cambiare qualcosa attraverso le "libere elezioni democratiche" e quindi è una cartina di tornasole di una democrazia malata.

Oltre all'astensionismo, assistiamo anche all'emergere di nuove (nuove nelle forme, ma vecchissime nei contenuti) forme di populismo, alle varie riforme elettorali che distorcono il voto dei cittadini, spostandolo verso il centro, anche grazie all'introduzione delle soglie di sbarramento (grandissimo provvedimento democratico!?!?!), e -dulcis in fundo- la recente pratica di fare e disfare i governi da parte del Presidente della Repubblica, mettendo al governo elementi NON eletti dai cittadini, come Renzi.



Ma da noi si continua a festeggiare la caduta del Murto di Berlino.

Per giunta facendo finta di non vedere il nuovo muro della vergogna, molto più lungo, massiccio ed opprimente di quanto fosse quello. Ossia, quello che lo Stato Sionista di Israele ha costruito per opprimere e tenere prigioniero il popolo palestinese (dopo aver rubato loro la terra).

giovedì 6 novembre 2014

25 anni di Crollo del Muro di Berlino: propaganda mediatica e realtà (nascosta)

25 anni fa crollava il Muro di Berlino, mettendo fine ai "regimi" socialisti dell'Europa dell'Est, al Patto di Varsavia e alla guerra fredda.

La prima cosa da dire sull'evento specifico del 9 novembre 1989 è che tale fatto è stato talmente spettacolarizzato dai mass-media, che pochissimi sanno o ricordano come si svolsero effettivamente i fatti e come si arrivò all'abbattimento del muro.
La continua riproposizione di immagini in cui il "popolo" prende a picconate il muro o ci si arrampica sopra per festeggiare, è servita e serve a dare l'idea che quello sia stato un episodio "rivoluzionario", o qualcosa di simile: i tedeschi (sia dell'est che dell'ovest) che si sollevavano contro l'odiato muro che divideva in due la loro ex capitale e anche contro il "regime totalitario" della Repubblica Democratica Tedesca.

In realtà le cose andarono molto diversamente.
Tutto partì dal fatto che il governo della DDR di Egon Krenz (che aveva sostituito da poco Honecker) decise di aprire le frontiere con la Germania Occidentale e di dare il permesso ad alcuni suoi cittadini di espatriare.
Il popolo berlinese si è "sollevato" ed ha assaltato l'odiato muro DOPO aver appreso tale notizia e soltanto quando ha capito che nessun soldato della DDR gli avrebbe sparato addosso (magari fossero così semplici le vere rivoluzioni...).

Il processo che ha portato allo scioglimento della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e alla successiva unificazione con la Germania Occidentale (anche se di fatto è accaduto che quest'ultima ha annesso la prima) è stato un percorso molto più di vertice che di base. Il grosso della popolazione tedesca orientale è rimasto semmai spettatore passivo degli eventi.

Discorso molto simile va fatto per tutti gli altri paesi dell'Europa dell'Est, Unione Sovietica compresa: il passaggio dal regime socialista a ciò che noi chiamiamo "democrazia" (ossia, in realtà il capitalismo) è stato dappertutto un'operazione d'elite, in cui le popolazioni locali hanno svolto un ruolo assai marginale (le manifestazioni di piazza in concomitanza con tali passaggi vedevano tutt'al più la presenza di poche migliaia di persone).
Prova ne è che con l'avvento (o, meglio, il ritorno) del capitalismo, i "nuovi ricchi" che sono emersi in quei paesi provenivano -guarda caso- un po' tutti dalla vecchia classe dirigente degli ex Stati socialisti.

Inoltre, dà da riflettere un fatto curioso: ricordo personalmente che prima dell'89 da noi si diceva che nei paesi a Socialismo Reale la gente viveva male e che, se avessero potuto, sarebbero scappati tutti in Occidente.
E' significativo che l'immenso flusso migratorio dai paesi dell'Est Europa sia avvenuto, viceversa, negli anni successivi alla ottenuta "libertà".
Certo, si potrebbe obbiettare che prima dell'89 quei regimi proibissero alle loro popolazioni di andarsene via da lì (eppure un certo flusso, anche se molto più modesto, esisteva già allora). Ma non si capisce lo stesso come mai, ora che questi hanno raggiunto la tanto agognata "libertà", se ne siano fuggiti in massa, invece di rimanere a casa loro, per costruire dei paesi finalmente liberi, indipendenti e progrediti.

L'unica spiegazione di tale enorme flusso migratorio è che in realtà l'apertura al capitalismo occidentale ha fatto sì che numerose ricchezze e realtà produttive di quei paesi sono state svendute agli occidentali, molte fabbriche sono state chiuse e soprattutto molte garanzie sono andate perdute. Casa, lavoro, assistenza sanitaria, scuola, e così via. Nulla di tutto ciò è più garantito e la povertà in questi decenni è cresciuta, assieme alla delinquenza, alle varie mafie e alla prostituzione.

Nel 2009, vent'anni dopo il Crollo del Muro di Berlino, fece scalpore un sondaggio effettuato nella Germaina Orientale, in cui oltre la metà della popolazione riteneva che si vivesse meglio quando c'era la DDR.

Ma anche in Italia la fine del Socialismo Reale dei paesi dell'Est ha avuto, com'è noto, delle forti ripercussioni. In modo particolare, spingendo verso la fine del Partito Comunista Italiano e -ancor di più- favorendo l'avvio delle politiche liberiste, le quali stanno portando il nostro paese (e non solo il nostro) verso lo sfascio economico, politico e morale di questi giorni.

E noi festeggiamo ancora quest'evento?

martedì 30 settembre 2014

Jobs act, Governo Renzi e l'attualità di Marx

Non faccio parte di quel 40% (anzi, di quel 22%, considerando anche gli astenuti) degli italiani che alle ultime elezioni europee ha votato per il PD di Matteo Renzi.
E quindi non mi aspettavo nulla di positivo da parte di questo governo. Anche perchè dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che le politiche dei governi italiani sono sempre più condizionate -se non imposte- dall'Europa (oltre che dagli USA).
Dunque, il Jobs Act del Governo Renzi non è stato concepito dalla mente dell'ex sindaco di Firenze, ma è stato fortemente voluto dalla Confindustria e dall'Europa delle banche e del capitale finanziario, per rendere i lavoratori più licenziabili, e dunque più precari e ricattabili, e quindi per poter abbassare (ulteriormente) il costo del lavoro ed aumentare i livelli di sfruttamento (anni fa anche in Germania ci fu, in tal senso la Riforma Hartz, che introdusse i "minijobs").

Ma che cos'è il Jobs Act?
Diciamo che molto ruota intorno alla famosa questione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ossia, quello del licenziamento che può avvenire soltanto per giusta causa.
Questo non viene immediatamente cancellato, ma eliminato in modo graduale e progressivo -a partire dai nuovi assunti- per essere sostituito dal contratto "a tutele crescenti" (il nome suona bene, ma la realtà è ben diversa).
Tutti i diritti (conquistati, è bene ricordarlo, in decenni di dure lotte) non saranno in teoria eliminati, ma si otterranno dopo diversi anni di lavoro. Il problema è: quanti saranno i lavoratori che riusciranno a raggiungere un'anzianità lavorativa tale, da poter godere di questi diritti e non poter più essere licenziati (se non per giusta causa)? Prevedibilmente sarà una percentuale molto bassa.

Sull'articolo 18, poi, vanno chiariti alcuni equivoci.
Spesso, infatti, si sente tirare fuori l'argomento per cui a causa di tale articolo non si possono licenziare persone che lavorano poco e/o male (i "lavativi") o addirittura che danneggiano l'azienda o l'ente. Specialmente nel settore pubblico è pieno di questi soggetti.
In realtà i "lavativi" sono nella maggior parte persone raccomandate e vengono protette da qualcuno che conta e non certo dall'articolo 18. Se si facessero (il discorso vale ovviamente soprattutto per il pubblico) i dovuti controlli, molti di questi soggetti potrebbero essere benissimo licenziati anche oggi.

Ma si sa come funzionano tante cose in Italia: con la scusa dei falsi invalidi o dei pensionati non aventi diritto, alla fine si tolgono servizi e reddito a quelli che ne hanno veramente bisogno e diritto e quindi anche i "lavativi" sono utili per poter licenziare i lavoratori bravi quando serve o quando osano rivendicare salario o diritti.
Infatti, la cancellazione dell'articolo 18 serve proprio a questo: rendere i lavoratori più ricattabili e quindi maggiormente disposti ad accettare salari più bassi e turni di lavoro più massacranti.
Senza contare che si va anche verso la possibilità del demansionamento, per cui un lavoratore può benissimo essere degradato di ruolo e vedersi ridurre il livello e quindi, di nuovo, lo stipendio.
Tra l'altro il facile licenziamento avrà con ogni probabilità anche come conseguenza un (ulteriore) calo delle nascite e dei matrimoni. Infatti, una lavoratrice che desiderasse andare in maternità verrebbe immediatamente espulsa dal lavoro.



Le politiche europee (e Renzi), quindi, pensano di risolvere la crisi economica -che è essenzialmente una crisi di profitti- abbassando, di fatto, il salario dei lavoratori e dei ceti popolari. Sia il salario diretto (ciò che entra nella busta-paga) che quello indiretto (pensioni, servizi socio-sanitari, ecc.), che subisce continui tagli.

E qui entra in ballo Marx.
La crisi di profitti (sto semplificando) è una tendenza a lungo termine, connaturata al capitalismo. Questa, però, può essere temporaneamente -ma solo temporaneamente- risolta attraverso diversi fattori (che Marx chiama "fattori di controtendenza alla caduta del saggio di profitto").
Non elenco qui tutti questi fattori. Mi limito solo ad osservare come l'Europa stia puntando sul peggiore di tutti, sul più retrogrado, ossia, sull'abbassamento del salario.
Questo genere di misure potrebbero, in teoria, anche portare -nel breve-medio termine- a qualche "segnale di ripresa". Ma, quand'anche fosse, si tratterebbe di un sollievo assai effimero, dopodichè la crisi non tarderebbe a riprendere drammaticamente il suo corso.

Ma il vero allarme -a mio avviso- sta proprio nel fatto che l'Europa punti (quasi) esclusivamente a tale fattore, cioè all'abbassamento del costo del lavoro.
E' qui che emerge una tendenza di fondo di carattere addirittura storico: l'Europa e gli USA, dopo secoli di egemonia economica, politica, scientifica, tecnologica e culturale, stanno imboccando decisamente la strada del declino.
Viceversa, altri paesi dell'ex Terzo Mondo (Cina in testa; ma anche India, Brasile, ecc.) stanno emergendo non solo a livello economico-commerciale, ma anche nella ricerca scientifica, nell'innovazione tecnologica (perfino il Venezuela ha lanciato il suo primo satellite) e in altre sfere.

L'immagine che abbiamo della Cina, la quale fabbrica ed esporta prodotti di bassa qualità, ma economici, appartiene ormai al passato. Tra pochi anni saremo noi europei a produrre a basso costo prodotti di scarsa qualità, mentre la Cina -prevedibilmente- non tarderà a prendere il posto della Germania e degli USA.
Prepariamoci ad un futuro in cui diventeremo noi gli "immigrati".

venerdì 19 settembre 2014

patriottismo, nazionalismo e la vicenda dei due Marò

Non sono mai stato una persona molto patriottica.
O forse sì: forse lo sono stato molto più di quanto io stesso me ne rendessi conto.
E, anzi, negli ultimi anni ho molto rivalutato l'importanza di una certa dose di patriottismo, che a ben vedere non è necessariamente in contraddizione con l'internazionalismo.

Di solito il patriottismo viene associato ad una matrice politica di destra, ma in realtà le cose non stanno proprio così: molto spesso i socialisti, i comunisti, i rivoluzionari hanno fatto appello al patriottismo (vedi ad esempio il noto slogan dei rivoluzionari cubani "patria o muerte").
Diciamo che non sono mai stato un nazionalista, ma quella è un'altra cosa.

Il patriottismo è un generico sentimento di amore verso il proprio paese, i suoi costumi, la sua cultura, i suoi usi.
Mentre per nazionalismo di solito si intende una teoria, che reputa un determinato popolo o nazione in una posizione di superiorità, rispetto agli altri. E questo sì, è tipicamente di destra.
Spesso, infatti, il nazionalismo è servito a perseguire o a giustificare politiche aggressive e di dominio di certi Stati nei confronti di altri più deboli, soprattutto durante il colonialismo (anche se poi a ben vedere chi beneficiava veramente dei vantaggi delle politiche aggressive era solo la classe sociale dominante; non certo il popolo o i soldati, che magari combattevano, loro sì, per sentimenti patriottici).

Ma molto spesso accade che il nazionalismo venga anche utilizzato strumentalmente proprio per camuffare l'opposto, ossia, una subordinazione di fatto.
Ad esempio, durante la dittatura golpista e sanguinaria in Cile, i militari facevano appello al nazionalismo, ma in realtà questo serviva a coprire la lunga mano degli Stati Uniti, i veri artefici, nonchè beneficiari di quella crudele dittatura.

Mentre, viceversa, un certo patriottismo, quando è legato alle esigenze di emancipazione di un popolo oppresso da un'altra nazione dominante, allora è sicuramente un fatto positivo e progressista.



Ha senso oggi in Italia essere patriottici?
Se lo si è nel giusto modo, sì.
Fin dal dopoguerra, infatti, il Bel Paese è stato ridotto ad una condizione di "sovranità limitata" di fatto.
Durante questi decenni gli Stati Uniti hanno condizionato pesantemente la politica italiana, arrivando perfino -tramite la Gladio- ad esercitare un ruolo nella stagione del terrorismo, tra l'altro facendo fallire il Compromesso Storico.

Ogni governo italiano per insediarsi deve avere prima il "placet" americano (mentre quello del popolo conta molto di meno, come abbiamo visto anche in questi ultimi anni).
Gli USA inoltre posseggono -attraverso la NATO- oltre 100 basi militari nel nostro territorio, dove per giunta alloggiano diverse decine di testate nucleari (e sono sempre loro a decidere se, come e quando usarle).
Come se non bastasse, gli yankees esercitano un notevole potere economico ed una fortissima influenza ideologica su di noi, grazie all'utilizzo di strumenti e tecniche di comunicazione sempre più raffinate e pervasive (TV, giornali/riviste, internet, social networks ecc.).
Oltre agli USA, l'Italia è subordinata anche all'Europa (essenzialmente alla Germania) che ci toglie sovranità economica, grazie all'Euro, e ci impone politiche economiche socialmente devastanti.

Dunque, il patriottismo è sicuramente utile laddove questo serve a battersi contro lo strapotere americano (e, in misura minore, tedesco) in Italia. Non lo è -anzi, è controproducente- quando invece copre la nostra reale suddittanza.

A livello politico-istituzionale, infatti, i sentimenti patriottici sono stati tirati fuori di recente in almeno 3 occasioni: nel 2003, con i caduti di Nassirya, in Iraq, sul caso Cesare Battisti in Brasile e attualmente con la vicenda dei due Marò in India.
Nel primo caso, quello di Nassirya, si è incitato all'orgoglio nazionale per coprire il fatto che abbiamo invaso militarmente un paese praticamente solo per supportare gli americani, che ce lo avevano richiesto (d'altronde anche Sarkozy s'è comportato allo stesso modo, ritirando in ballo la "grandeur" francese, in occasione dell'intervento in Libia, perseguito essenzialmente nell'interesse degli USA).

Il caso di Battisti, in Brasile, e dei due Marò in India è un po' diverso: lì ci troviamo di fronte ad una resistenza, da parte dell'Italia, a riconoscere l'aumentata importanza, sulla scena mondiale, di questi due paesi (nonchè la diminuita importanza dello Stivale).
I diplomatici nostrani, abituati da decenni a trattare India e Brasile come Stati del Terzo Mondo -e quindi con una certa sufficienza- ora si trovano in difficoltà di fronte ad una situazione mutata, che vede i due paesi in questione progredire e aumentare di peso sotto molteplici aspetti (pochi anni fa, ad esempio, entrambe i paesi hanno superato l'Italia come produzione industriale; e sono in continua ascesa, mentre essa da noi diminuisce anno per anno).

Da notare che nell'ambito dei rapporti politico-diplomatici poco importa se le persone in questione -Battisti e i due Marò- siano state realmente colpevoli o meno (ricordiamoci come il pilota americano responsabile della tragedia del Cermis -20 italiani morti!- venne subito rimpatriato negli States e nel relativo processo venne sostanzialmente assolto. Lì il messaggio diplomatico che gli americani ci hanno mandato era questo: a casa vostra comandiamo noi e facciamo impunemente come ci pare!)

Dunque, tirare in ballo il nazionalismo nel caso dei Marò equivale a farsi grandi contro un paese (che noi riteniamo) inferiore, mentre contemporaneamente ci dimentichiamo di essere poco più che una colonia degli USA, per giunta bistrattata.

Ancora più ridicola è l'esibizione di un presunto patriottismo (o nazionalismo) di fronte al fenomeno dell'immigrazione: l'ostilità nei loro confronti da parte di molte persone può essere definita solo in un modo: guerra tra poveri!
E non c'è assolutamente nulla di patriottico in ciò.
(a scanso di equivoci, NON mi piace bollare le persone che odiano gli extracomunitari come "razziste"; non solo perchè scadrei in un discorso moralista -poco utile- ma perchè tale ostilità ha di solito poco a che vedere con il razzismo vero e proprio; si tratta il più delle volte di mancata comprensione del fatto che gli immigrati -come d'altronde pure gli italiani non benestanti- sono alla fine vittime del capitalismo e delle sue molteplici forme di sfruttamento).

martedì 9 settembre 2014

L'attentato alle Torri Gemelle e l'invasione dell'Afghanistan


"La storia si ripete sempre due volte", diceva Marx, "la prima volta come tragedia e la seconda come farsa."
A giorni cade il 13 anniversario dell'attentato alle Torri Gemelle di New York dell' 11 settembre 2001.
Questo episodio costituisce in tal senso un'anomalia: qui abbiamo contemporaneamente sia la tragedia che la farsa. Che tale attentato sia stato una tragedia, su questo c'è poco da discutere. Ma anche l'elemento farsesco non è mancato.

In effetti l'interpretazione mass-mediatica ufficiale lascia assai perplessi. La favoletta di Bin Laden, che, a capo di un'organizzazione fondamentalista islamica, pensa di portare avanti in questo modo la "guerra santa" contro l'Occidente infedele, fa acqua da tutte le parti.
Intanto la versione ufficiale sia dell'attentato che del successivo intervento militare in Afghanistan ha qualcosa di hollywoodiano: i "cattivi e prepotenti" che aggrediscono gente innocente, ma poi dopo "arrivano i nostri", i quali si battono per far trionfare il bene sul male.
E gli americani sono riusciti così tanto a far trionfare il "bene", che i soli soldati della coalizione morti nella guerra afghana hanno superato quelli delle Torri Gemelle (i morti fra i civili afghani sono ovviamente un numero molto superiore).

Ma torniamo all'attentato.
Non essendo io un ingegnere, non mi dilungherò troppo su questioni tecniche, anche se -da "profano"- faccio fatica a credere che un aereo possa riuscire a far crollare a terra un grattacielo di quelle dimensioni (è noto che anni fa a Madrid un grattacielo subì un incendio che lo distrusse completamente, ma la struttura portante, a differenza delle Torri Gemelle, rimase in piedi).
Ancora più incredibile è la storia del crollo del terzo edificio (il World Trade Center 7), avvenuto -così dice la versione ufficiale- per i calcinacci caduti dalle due Torri Gemelle sull'edificio (?!?!?).

Inoltre rimane un mistero l'impossibilità a reperire un video del (presunto) aereo finito quella stessa mattina sul Pentagono.
Quando si parla del Pentagono, si parla della struttura probabilmente più monitorata al mondo, intonro al quale ci saranno state centinaia di telecamere. Impensabile che non esistano dei video sull'episodio. Perchè i vertici americani non vogliono farci vedere quei filmati?
Ci sono, inoltre, una serie di altre incongruenze di tipo tecnico o organizzativo (relativi, ad esempio, al mancato intervento difensivo, ecc.) sui quali, non essendo un intenditore, preferisco tralasciare.


Desidero, invece, sollevare l'attenzione sull'assurdità della versione ufficiale dei fatti, dato che poi è quella che la maggioranza della gente dà per buona. E che invece, ad un'osservazione un po' meno superficiale -anche da non specialista- appare di scarsissima credibilità.

Se è vero che l'attentato alle Torri Gemelle fosse stato ideato, progettato e preparato da Bin Laden e da Al Qaeda per la causa della religione islamica, bisogna dire che gli organizzatori hanno commesso -dal loro punto di vista- una serie impressionante di errori madornali.

Tanto per cominciare, con un simile attentato -che, ricordiamo, ha avuto un impatto mass-mediatico eccezionale- l'immagine che si dà al mondo dell'islam è estremamente negativa: è quella di una religione di pazzi, fanatici, assassini, che uccidono, a freddo, migliaia di persone innocenti. Decisamente controproducente per la causa dell'islam!
Ma anche all'interno dello stesso mondo islamico gli attentatori non hanno fatto un grande affare: la condanna dell'attentato è stata totale e inappellabile da parte di tutti i paesi a prevalente religione islamica e di praticamente tutte le comunità mussulmane delle varie confessioni (sunniti, sciiti, ecc.) presenti nel mondo. Cosa tra l'altro prevedibilissima.
Come pensava Al Qaeda di poter sostenere una "guerra santa", alienandosi le simpatie del mondo intero, islamico compreso, è tutto da capire.

Non serve, poi, essere studiosi di strategie politico-militari per capire che non si può attaccare apertamente quella che è di gran lunga la più grande potenza politico-militare mondiale (e a quei tempi, nel 2001, si può dire anche l'unica), cioè gli Stati Uniti, senza subirne durissime conseguenze. Soprattutto se non si ha nemmeno l'appoggio di un'altra potenza. Sarebbe come se un coniglio provasse ad attaccare apertamente un leone.
I nostri mass-media, a dire il vero, ci riferivano che Al Qaeda era sostenuta dall'Afghanistan. Il cui livello di potenza era paragonabile a quello del Burundi.

Se almeno Bin Laden avesse avuto l'accortezza di attaccare, al posto delle Torri Gemelle, una base militare americana, magari in Medio Oriente, forse era possibile che qualche simpatia da parte delle popolazioni di quell'area l'avrebbe ottenuta (ma sarebbe stata comunque ampiamente insufficiente per sostenere uno scontro con gli USA).

In ogni caso è impossibile organizzare un attentato come quello dell'11 settembre 2001, senza che la CIA non lo venga a scoprire. Anche perchè risulta che Bin Laden avesse avuto buoni rapporti con la CIA durante l'invasione sovietica (e probabilmente anche dopo).
Tra l'altro qualche anno fa è venuta fuori la notizia che la CIA effettivamente sapeva bene della preparazione dell'attentato. Perchè non ha fatto nulla per impedirlo?

La risposta la possiamo ricavare osservando la cartina geografica dell'Asia: l'Afghanistan si trova quasi al centro di quel continente; all'est c'è la Cina, al sud il Pakistan e l'India, all'ovest l'Iran (vecchia spina nel fianco degli USA) e al nord, anche se non immediatamente confinante, abbiamo la Russia.
L'Afghanistan è un paese geograficamente strategico per gli Stati Uniti, nel cuore di un continente che oggi sta seriamente mettendo in discussione la loro egemonia economica globale. Gli americani DOVEVANO invaderlo a tutti i costi. E, per poterlo fare, serviva una valida giustificazione davanti a tutto il mondo.
L'attentato alle Torri Gemelle, guarda caso, è caduto a pennello.

lunedì 21 luglio 2014

USA, BRICS, Ucraina, Gaza....sarà guerra?

La scorsa settimana c'è stato un evento molto importante, per quanto riguarda i futuri assetti economico-politici mondiali. Tale evento -senza retorica- porrà le basi per un prossimo radicale mutamento dei rapporti di forza economico-politici nello scenario globale.
Quest'evento è stato talmente importante, che in Italia -e per la verità un po' in tutta Europa- tale notizia è passata quasi totalmente inosservata. Sembra quasi un silenzio-stampa. Invano ho provato a cercarla nei siti internet dei principali quotidiani italiani (ma anche in quelli francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi...). Se fossi un "grillino" direi: "questo non ve lo dice nessuno".

Ma di quale evento si tratta?
Parliamo del vertice dei paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) tenutosi il 15-16 luglio in Brasile, a Fortaleza.

Senza dilungarsi nei particolari, il dato importante emerso da quest'incontro è la creazione di una Banca di Sviluppo. Ossia, una banca alternativa alle due istituzioni finanziarie che hanno dominato l'economia mondiale fino ai giorni nostri (ed egemonizzati dagli Stati Uniti), ossia il FMI (Fondo Monetario Internazionale) e la Banca Mondiale.
La differenza fondamentale tra la Banca di Sviluppo che stanno per realizzare i paesi del BRICS e il FMI e BM è che mentre quest'ultime condizionano pesantemente le politiche economiche degli Stati, in senso liberista, la prima non lo fa, lasciando piena libertà a quei paesi che vi attingono.
E questo è un enorme vantaggio per i paesi emergenti.

Le decisioni uscite fuori dal vertice di Fortaleza pongono le basi per una futura emancipazione di questi paesi (e non solo di questi) dal dollaro e quindi dagli USA. E stiamo parlando di paesi in cui vive il 40% della popolazione mondiale e le cui economie sono in forte crescita e supereranno in tempi non lunghi quelle dell'intero Occidente.
Non solo: al vertice sono stati invitati capi di Stato di diversi paesi, soprattutto dell'America Latina (Argentina, Venezuela, Ecuador, ecc.).
Ovvio che gli americani vedano tutto ciò come fumo nell'occhio e faranno di tutto per impedire lo sviluppo di tali dinamiche.


Ora, leggendo il titolo dell'articolo, qualcuno si chiederà che cosa c'entra l'Ucraina e Gaza con tale evento?
Moltissimo!

Chi si intende un po' di geo-politica e non si accontenta delle versioni dei nostri mass-media (sostanzialmente egemonizzate, o quantomeno influenzate dagli USA) dovrebbe avere ben chiaro che il colpo di Stato dei mesi scorsi in Ucraina (camuffato -malamente- da "rivoluzione") e le continue provocazioni contro la Russia (l'ultima è quella dell'aereo malese colpito; poi ci sono le sanzioni economiche, e tanto altro) costituiscono un tentativo, da parte degli Stati Uniti, di spingere la Russia verso la guerra. E ciò proprio per tentare di contrastare i paesi del BRICS, indebolendo uno di questi paesi (dato che gli USA sul piano militare sono, almeno in teoria, più forti della Russia, e possono contare pure sui paesi europei, grazie alla NATO).

Dunque, gli americani e il loro presidente Obama "Nobel per la pace", vogliono a tutti i costi scatenare una guerra contro la Russia, ma naturalmente la vogliono in Europa, ossia, lontano da casa loro: il tributo di sangue e di distruzioni dobbiamo essere noi europei a darlo, non certo loro.

E Gaza? Cosa c'entra Gaza con tutto ciò?
Apparentemente qui il discorso sembra non avere niente a che fare. Da decenni, infatti, Israele sta combattendo una guerra per cacciare via il popolo palestinese dalla sua terra, distruggendo le loro case, massacrandone la popolazione, e tutto ciò in barba a diverse risoluzioni dell'ONU, che dicono il contrario, ma che lo Stato sionista di Israele fa finta di ignorare, potendo contare quantomeno sul silenzio, se non sull'appoggio dell'Occidente, Stati Uniti in primis.

Ma gli eventi recenti sembrano aggiungere un altro elemento.
Al largo di Gaza è stato scoperto un giacimento di gas, che Hamas (l'organizzazione palestinese che governa la Striscia di Gaza) intendeva sfruttare, grazie all'aiuto di Gazprom (russa, per chi non lo sapesse).
Pochi giorni dopo tale decisione, ignoti caturano e uccidono i tre giovani israeliani e il governo di tale paese scatena il genocidio della popolazione di Gaza, invadendone il territorio.

Pura coincidenza?
Mah...
Fatto sta, che grazie agli Stati Uniti e a Israele si avvicina, a cent'anni di distanza dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, un nuovo possibile conflitto.

lunedì 14 luglio 2014

Grande, Renzi, è riuscito ad ottenere.....niente!

C'è una buona notizia per chi odia gli immigrati!
Oddio, la notizia, a dir la verità, è tutt'altro che buona. Ma per chi ha la lungimiranza di credere che il problema principale in Italia siano gli extracomunitari, è senz'altro un'ottima notizia.

Gli immigrati in Italia incominciano a diminuire.
Secondo i dati che l'ISTAT ha pubblicato recentemente, gli ingressi di extracomunitari nel nostro paese sono diminuiti, nel 2012, del 27,7%, rispetto al 2007.
Contemporaneamente aumenta il numero di stranieri che se ne va via dal Bel Paese (+17,9%).

A tali dati, però, andrebbe aggiunto un altro fenomeno, per comprendere meglio ciò che effettivamente sta accadendo: aumentano enormemente gli italiani che espatriano, in cerca di maggior fortuna all'estero.
Dunque, gli italiani hanno ripreso, dopo parecchi decenni, ad emigrare alla grande.

Entrambi i fenomeni di cui sopra sono evidenti indici di un peggioramento delle condizioni di vita nel nostro paese.
E, tanto per avere una conferma, la Caritas denuncia -dati alla mano- il raddoppio del numero dei poveri assoluti in Italia dal 2007 al 2012.
Cala, inoltre, la produzione industriale, del 6,7% nel 2012, rispetto all'anno precedente, e addirittura del 25% rispetto al 2008 (Corriere.it).
Naturalmente aumenta anche la disoccupazione (e il precariato; questo anche per le leggi sul lavoro).
Manco a dirlo, assistiamo ad un vero e proprio boom di chiusure aziendali (piccole-medie imprese, laboratori artigianali), nonchè di esercizi commerciali.

Arrivati a questo punto, la maggior parte degli italiani sarebbe portata "istintivamente" a dare tutta la colpa ai soliti politici "ladri", "magna-magna", "corrotti", ecc.
Niente di più sbagliato e fuorviante!
Anche perchè la crisi economica che attanaglia l'Italia, la ritroviamo -con poche varianti- negli Stati Uniti, in Giappone e in molti paesi europei (e non soltanto in Spagna, Grecia, Portogallo, ma anche in Francia, in Gran Bretagna e qualche accenno perfino in Germania).

Per carità, non che voglia difendere il nostro ceto politico attuale -certo, il peggiore dal dopoguerra; ma è anche il prodotto dell'ubriacatura anticomunista dall'89 in poi- ma il vero problema non è la "casta politica", bensì il CAPITALISMO.
Siamo in presenza di quella che Marx chiamava la crisi di sovrapproduzione di capitali (e quindi di merci), legata alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Senza addentrarci troppo alle questioni economiche, il dato di fatto è che tendenzialmente tutto il mondo capitalistico, e soprattutto tutti i paesi che nei decenni scorsi hanno adottato politiche liberiste, è in crisi.
La crisi anni fa si fece sentire pure in Cina (come conseguenza di quella occidentale). Ma il paese che da noi viene superficialmente bollato come "dittatura" o "totalitarismo", ha adottato politiche oculate di aumento della spesa pubblica, soprattutto indirizzata verso l'aumento dei salari -parliamo di aumenti seri e generalizzati; niente a che vedere con la buffonata elettorale degli 80 euro di Renzi- e degli investimenti.
Ed è riuscito, in questo modo, a far ripartire l'economia cinese, alla grande.

Torniamo all'Italia, le politiche fin qui adottate, ossia, quelle di contenimento del debito pubblico, attraverso il taglio delle spese per i servizi sociali, non hanno fatto altro che peggiorare la già profonda crisi economica, com'era facilmente prevedibile.
In questo contesto, assistiamo da parte del nostro esecutivo ad un lavoro, che è praticamente di sola propaganda e immagine, coadiuvato dai vari mass-media, ormai asserviti del tutto ai poteri forti.

L'Italia sarà obbligata nei prossimi anni a perseguire il pareggio di bilancio e a portare avanti i pesantissimi tagli che impone il fiscal compact.
Nonostante la retorica mass-mediatica, nella quale si è parlato di "austerità flessibile", Matteo Renzi, nell'incontro con il premier tedesco Angela Merkel non è riuscito ad ottenere nulla di sostanzioso.
Per cui, aspettiamoci altri tagli e stangate...

mercoledì 18 giugno 2014

Berlinguer, al di là del mito

 
La prima domanda che viene in mente quando si pensa ad Enrico Berlinguer è: perché la sua figura è diventata oggi un mito per tanta gente di sinistra (e non solo)?

Vedo essenzialmente 3 motivi:
il primo è che durante la sua segreteria il PCI riuscì ad ottenere il record storico dei voti, alle elezioni politiche del 1976 (ma non il record degli iscritti, risalente al periodo togliattiano).
Il secondo motivo è che dopo di lui i comunisti e la sinistra hanno avuto come dirigenti figure assai mediocri. E’ chiaro che al confronto di personaggi quali Natta, Occhetto, D’Alema, Veltroni, Cossutta, Bertinotti, Vendola, ecc. Berlinguer appare veramente come un gigante (ma il discorso cambia se lo si paragona a Gramsci, Togliatti o a Longo, personaggi di statura, secondo me, maggiore).
Il terzo motivo è quello relativo alla questione morale, ossia, alla sua denuncia della deriva morale dei partiti, sempre più tendenti verso macchine di potere corrotte. Una denuncia importante e tempistica (oltre 10 anni prima di “Mani Pulite”), che Berlinguer avrebbe dovuto, però, ricollegarla in modo chiaro alle dinamiche del capitalismo e a come questo s’è sviluppato in Italia.

 
Fin qui il mito.
Una valutazione di Enrico Berlinguer più “concreta” richiede ben altre considerazioni (che, certo, in un articolo breve come questo non possono che essere trattate in modo schematico e semplicistico).

Intanto ci sarebbe da dire che una figura come Berlinguer deve essere necessariamente considerata sotto diversi aspetti: sotto l’aspetto morale, politico e ideologico.
Per l’aspetto morale va detto che sulla rettitudine di Berlinguer non ci piove. Un personaggio di un’onestà, una correttezza, una serietà oggi quasi inimmaginabili (Beppe Grillo, il grande “fustigatore di costumi” dei tempi nostri non possiede neanche un millesimo della serietà che aveva il segretario del PCI; ma lo stesso discorso vale anche per Renzi).

Indubbiamente Enrico Berlinguer è stato anche una grandissima mente politica. Una persona dotata di notevole intuito e anche non poco coraggiosa.
Intuì in anticipo la crisi a cui stavano andando incontro l’URSS e i paesi del Patto di Varsavia. Riuscì ad essere fortemente innovativo e a tentare strade nuove -magari non sempre azzeccatissime- in modo coraggioso e senza cullarsi nell’esistente.

Sulle enormi qualità di Berlinguer si potrebbe ancora parlare a lungo.
Ma una valutazione che tenga conto di tutti gli aspetti non può non tenere presente anche i limiti e gli errori commessi dal comunista sardo.

Il più forte limite di Berlinguer era –a mio avviso- di tipo teorico-ideologico (un aspetto, quest’ultimo, in genere sottovalutato, ma molto più “concreto” di quanto comunemente si immagini).
L’allora segretario del PCI aveva –per quanto si possa cogliere- una visione troppo incentrata sugli aspetti strettamente politici, mettendo in secondo piano le dinamiche sociali e di classe.

Ciò emerge intanto dal TIPO di critica che egli esercitò nei confronti dell’Unione Sovietica. Intendiamoci: di motivi per criticare l'URSS ce n'erano a bizzeffe, solo che invece di tentare di mettere in luce –da buon marxista- le contraddizioni socio-economiche di quel paese, si limitò a denunciarne il carattere autoritario e antidemocratico.
Ma ancora di più si nota nella sua concezione del Compromesso Storico, visto essenzialmente come un accordo politico. Berlinguer probabilmente riteneva che una volta ottenuto il consenso dell’allora segretario della Democrazia Cristiana (Aldo Moro) e del Presidente degli Stati Uniti (Jimmy Carter) il grosso era fatto. Purtroppo i fatti successivi (uccisione di Aldo Moro, Preambolo della DC) hanno brutalmente dimostrato che non era così. E che il vero potere –in una società capitalistica- è lungi dall’identificarsi col potere politico formale (come non si stancava di ripetere Marx).

Connessa al tentativo di realizzare il Compromesso Storico è la nota decisione di accettare “l’ombrello della NATO”. Decisione secondo me discutibile: la NATO era ed è tutt’altro che un “ombrello”, bensì una macchina da guerra. E infatti, il PCI ha accettato la NATO, ma la NATO per tutta risposta ha continuato a non accettare il PCI.

Ma la domanda più grande che mi pongo è un’altra: premesso che l’accettazione della NATO da parte di Berlinguer era subordinata alla realizzazione del Compromesso storico, per quale motivo, una volta divenuto fin troppo esplicito il rifiuto di questo da parte della DC (e degli USA), il PCI non ha pensato di rivedere tale accettazione? Forse la decisione di accettare la NATO non era di natura tattica ma strategica?
Certo, tali questioni sono da vedere nel quadro delle relazioni internazionali, in cui il PCI aveva rotto con i paesi del patto di Varsavia (URSS in testa) e in cui si rivelò un fallimento l’effimera esperienza dell’Eurocomunismo, per cui il partito rischiava di ritrovarsi isolato.
Ma allora esistevano anche i paesi non allineati. Possibile che l’unico orizzonte fosse solo l’Occidente e i relativi partiti socialdemocratici?

Un’altra questione riguarda il rapporto tra il PCI e i movimenti giovanili del 68 e dintorni. Enrico Berlinguer, a differenza di Longo (il quale, però ebbe problemi di salute e non poté seguire bene gli eventi) rimase sempre restìo ad instaurare buoni rapporti col movimento del ’68. Perché?
Un rapporto proficuo con quei movimenti avrebbe da una parte arricchito il PCI e dall’altra avrebbe evitato, almeno in parte, il prodursi di certe fratture e le relative derive estremistiche, emerse soprattutto nella seconda metà degli anni settanta.

A giustificazione dell'operato di Berlinguer c’è tuttavia da considerare che la situazione politica italiana soffriva in quegli anni di un vero e proprio blocco: la Guerra Fredda e la condizione di sovranità limitata in cui versava –di fatto- il Bel Paese, impedivano al PCI di andare al governo, anche se avesse preso la maggioranza dei voti (gli americani erano già pronti a fare un colpo di Stato nell’eventualità).
Berlinguer fece un tentativo, molto coraggioso –egli rischiò anche la pelle- di sbloccare tale situazione. E non potendo fare troppe forzature, tentò una strada “morbida” e conciliante.
Ma non gli riuscì: il capitalismo e la borghesia sono per loro natura rapaci e poco disposti a conciliare.

martedì 10 giugno 2014

l'enorme differenza tra essere informati, e avere una coscienza politica

Partiamo da un presupposto del tutto irrealistico: supponiamo, per assurdo, che tutte le informazioni che ci giungono dai mass-media o dalle varie forze politiche siano attendibili ed imparziali.

Quindi, diamo per buono che tutti i paesi che gli Stati Uniti intendono attaccare (spingendoci a farlo anche noi) siano, guarda caso, tutti governati da feroci dittatori (o, come si dice, dei “novelli Hitler”). Diamo per buono che in Italia tutto funzionerebbe ottimamente, se non ci fossero gli unici problemi del paese, ossia, il debito pubblico, gli immigrati, l’eccessivo statalismo, il costo del lavoro troppo alto e poco flessibile, l’INPS sempre in rosso… E diamo per buono che tutti gli esponenti della forza politica XY siano bravi e onesti, mentre tutti gli altri siano inevitabilmente ladri, corrotti, quando non mafiosi.
Diamo, ancora, per buono che il Papa, il clero cattolico e tutti i militanti delle relative associazioni siano tutte persone squisite, sempre sorridenti, generose, umili, piene di amore verso il prossimo (banchieri dello IOR e preti pedofili compresi, naturalmente) e che si prodigano tutti i santi (è il caso di dirlo) giorni per aiutare i poveri e i bisognosi, mentre chi crede in altre confessioni lo sia molto di meno, e in modo particolare i musulmani, i quali, viceversa, sono brutti, prepotenti, rozzi, antipatici, violenti, mezzi terroristi, invasati di odio e la cui unica ossessione è quella di costringere noi occidentali a convertirci all’islam, o in alternativa ad ucciderci senza pietà.
E diamo per buono che….no, vabbè, può bastare.

Nella società moderna siamo letteralmente bombardati da centinaia, se non migliaia, di notizie: dall’ultimo flirt dell’attrice x, alla colazione del principe y, al neonato figlio del calciatore z, all’attentato terroristico nel Bahrein.
In teoria dovremmo avere tutti, a causa di ciò, un elevatissimo livello di consapevolezza sulla nostra società, sul mondo in cui viviamo, il che dovrebbe tradursi in una buona coscienza politica diffusa (palesata dal crescente astensionismo elettorale).

Ironia a parte, per ottenere un livello di coscienza politica adeguata il problema non è la quantità delle informazioni, ma IL MODO COME VENGONO ORDINATE ED INTERPRETATE.

Il primissimo passaggio per interpretare le notizie è quello, intanto, di ordinarle per importanza. Potrebbe sembrare una banale questione di buon senso, ma molto spesso non è così. Anzi, a volte serve un elevato livello di professionalità e di esperienza in un campo per distinguere un’informazione significativa, da un’altra che appare tale, ma non lo è.
Un secondo passaggio importante è quello di capire qual è la fonte delle notizie (sarebbe anche da verificarne l’attendibilità, ma ovviamente non è un lavoro alla portata di tutti; ma già tenere ben presente la fonte, può essere intanto un passaggio utile).

Dopodiché si passa alla decifrazione vera e propria. Ottenere migliaia e migliaia di notizie, se poi non sappiamo come interpretarle, serve a ben poco, o potrebbe essere addirittura fuorviante.
Mi viene in mente un esempio un po’ estremo (ma tutt’altro che infrequente!): due persone che abitano nella stessa casa, o nella stessa camera (mettiamo marito e moglie), i quali, dopo anni ed anni di frequentazione quotidiana –dalla quale hanno potuto trarne miriadi di informazioni sull’altra persona- scoprono alla fine di non conoscersi affatto e di essersi fatti un’opinione assai distorta dell’altra persona.
Ecco un esempio lampante di come a volte il bombardamento di notizie possa servire a ben poco, se poi non si sa come interpretarle. E se ciò può accadere e accade tra due conviventi, figuriamoci tra i cittadini e i personaggi politici (o i partiti)!

Le dinamiche sociali –e, di conseguenza quelle politiche- presentano un tale livello di complessità e di articolazione, che è estremamente difficile farsi un’opinione adeguata su una determinata politica, sulla base di semplici informazioni (anche supponendo che queste siano attendibili).
Una comprensione un minimo adeguata –e, quindi, un principio di coscienza politica- può darsi soltanto sulla base di una VISIONE COMPLESSIVA della società, quella che comunemente chiamiamo “ideologia”.
La vera e propria coscienza politica si ha nel momento in cui una persona diventa consapevole di far parte di un determinato settore sociale e di quali interessi questo settore esprime. A livello più generale, è la consapevolezza di far parte di una determinata classe sociale.

Non è certo col “bombardamento” di notizie sulla disonestà dei politici, che si crea una coscienza politica. Con tale metodo l’unico risultato è provocare indignazione, rancore, ma anche pregiudizi, e infine sfiducia. Oppure, la disponibilità da parte di numerose persone a seguire ciecamente qualunque leader carismatico che APPAIA più onesto o comunque migliore degli altri (che poi lo sia veramente è tutto da dimostrare).
Quando Marx, Lenin e Gramsci hanno elaborato le loro concezioni teoriche miravano proprio a realizzare una coscienza politica e di classe ai lavoratori, ai ceti popolari. Anche loro avrebbero potuto rivelare numerose notizie circa i politici disonesti, ma si sono ben guardati da simili banalità “grilline”: il loro obbiettivo era molto più nobile.

Un’ultima osservazione: stiamo molto attenti alle miriadi di “notizie” che circolano sul web, spesso con filmati dubbi. Molte di esse sono bufale e purtroppo il comportamento diffuso in tante persone è quello di condividere in modo meccanico tali “scoop”, senza domandarsi quanto ci possa essere di vero.

giovedì 29 maggio 2014

alcune considerazioni sui risultati delle elezioni

Forse la sto prendendo un po’ troppo “larga”, ma parlare di Europa senza prima inquadrare il continente all’interno delle recenti dinamiche mondiali è limitante.
La tendenza mondiale –molto sinteticamente- è la seguente: negli ultimi anni stanno sempre più emergendo i paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a livello economico, ma sempre più anche politico.
Gli Stati Uniti si trovano in grave difficoltà di fronte a tale ascesa e tentano quantomeno di legare a sé il più possibile i paesi europei, staccandoli soprattutto dalle relazioni con la Russia. Contro la quale gli USA stanno praticando una politica decisamente aggressiva, anche se in modo (neanche tanto) indiretto (vedi Libia, Siria e soprattutto Ucraina). Agli americani conviene, agli europei decisamente meno, dato che un deterioramento serio dei rapporti con la Russia, avrebbe ripercussioni economiche gravi per i paesi dell’UE (Italia compresa), già alle prese con una pesante crisi economica.

L’Europa, infatti, si trova, per la prima volta da secoli, in una fase di declino economico, politico, culturale e morale.
La crisi economica è da attribuire al meccanismo di funzionamento del capitalismo (vedi Marx). Il problema è che le scelte dell’Unione Europea –e in modo particolare dei paesi che hanno aderito all’euro- sono le peggiori che possano essere fatte in un contesto di crisi: riduzione del debito pubblico, attraverso pesanti tagli al salario, alle pensioni, alla sanità, ecc. (che naturalmente vanno ad incidere soprattutto, se non esclusivamente, sui lavoratori e sui ceti popolari). Così la crisi si alimenta e si aggrava come un circolo vizioso.
L’unico paese che ne sta uscendo economicamente bene è la Germania, e proprio grazie all’euro e alle politiche di cui sopra (fiscal compact). In pratica, sta facendo pagare la sua floridità ai paesi deboli (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda, ecc.).

Detto ciò, il comportamento elettorale degli europei riflette nel complesso tale stato di crisi e di decadenza. Comportamento che si esprime in modi diversi e contraddittori: dalla sfiducia (astensionismo, che a livello europeo non è aumentato, ma rimane elevatissimo), alla contrarietà, o quantomeno allo scetticismo nei confronti dell’Europa, da intendersi non come rifiuto dell’Europa unita in sé, quanto come rigetto delle politiche economiche dominanti nel continente.
Il dissenso (o euroscetticismo) è in netta crescita dappertutto.
Curiosamente l’unico paese dove le forze centriste e filo-UE tengono è, guarda caso, la Germania, ossia, l’unico paese che dall’introduzione della moneta comune ci ha guadagnato. Ma persino lì l’euroscetticismo è in leggera crescita (sull’Italia ritornerò più avanti).
Per il resto avanzano in modo notevole i partiti in diversi modi critici verso l’UE e verso l’euro.

Il cosiddetto “euroscetticismo” (termine ovviamente riduttivo) presenta –semplificando- due facce: quella di destra, che magari parte da un atteggiamento critico anche legittimo, ma che sfocia sostanzialmente ad una reazione di tipo nazional-egoista (stile: pensiamo a salvarci noi, degli altri poco ci importa). Il successo di questa opzione è particolarmente netto in Francia, in Gran Bretagna, in Austria e anche altrove.
E poi c’è la crescita delle forze di sinistra (cosiddetta “radicale”; ossia, quella che difende i ceti popolari e non il capitale finanziario). Crescita molto consistente in Grecia (dove Syriza è addirittura il primo partito), in Portogallo, in Spagna e in Irlanda –i paesi più colpiti dalle misure di austerità imposte dall’Europa- ma anche nell’insospettabile Belgio, nella Repubblica Ceca e altrove.
Infatti il GUE/NGL passa da 35 a 49 deputati.

 

E veniamo all’Italia. Chi ha vinto?
Sicuramente l’astensionismo. Ossia, la sfiducia, la rassegnazione. Che implica, nella maggior parte dei casi, un’insoddisfazione di fondo.
Poi, contrariamente alle previsioni (anche mie), il M5S non ha sfondato. Ma il 20% rappresenta comunque un risultato notevole per una forza politica relativamente giovane (Beppe Grillo a parte) e che gestisce poco potere.
Non mi dilungo sui limiti di tale “movimento”, dato che ne ho già ampiamente trattato. Mi limito ad osservare che nella Parma di Pizzarotti il M5S ha ottenuto un risultato in linea con l’Emilia Romagna e con quello nazionale, segno che Pizzarotti non ha entusiasmato granché e che un conto è opporsi, urlare e criticare, un altro è governare.

Il 40% del PD di Renzi può essere considerato un risultato storico?
Direi proprio di no. In termini assoluti il PCI (e taccio sulla DC) riuscì ad ottenere nelle politiche del 1976 un milione e mezzo di votanti in più, laddove gli elettori erano 40 milioni, invece dei 49 milioni di oggi. Cioè, calcolando il consenso reale -ossia, sul totale degli elettori- quello del PCI del 1976 era del 31,2%, mentre quello del PD di Renzi è del 22,7%, quasi 10 punti in meno. A ciò andrebbe aggiunto il fatto che almeno ¾ di quei voti erano stabili, ossia il cosiddetto “zoccolo duro”. Quanti dei voti ottenuti dal PD di oggi si possono considerare tali?
Il fatto è che Renzi è arrivato da pochi mesi e difficilmente l’elettorato è in grado di dare un giudizio adeguato. Finora l’indubbio consenso dell’ex sindaco di Firenze è stato dovuto soprattutto ad aspetti esteriori e propagandistici (giovane, dinamico, apparentemente estraneo al vecchio apparato, senza contare la faccenda degli 80 euro).
Inoltre i voti del PCI di allora rappresentavano in toto un popolo progressista, mentre quelli del PD (che indubbiamente ha preso voti dal PdL e soprattutto da Scelta Civica) sono in gran parte voti conservatori.

La Lista Tsipras.
Personalmente, tenendo conto il contesto difficilissimo per la sinistra alternativa, sono soddisfatto del 4,03%.
Ho sentito non poche critiche “da sinistra” rispetto ai risultati di tale lista. Critiche nelle quali si sottolinea la perdita di quasi la metà dei voti in termini assoluti, rispetto al risultato della Federazione della Sinistra e di Sel del 2009 messe assieme.
Un tale paragone è, a mio avviso, improponibile e fuorviante. Primo, perché la FdS nel frattempo è stata distrutta, causando l’ennesima emorragia di voti, chiaramente visibile nei risultati di Rivoluzione Civile dello scorso anno. A ciò si aggiunge il fatto che il PdCI è rimasto sostanzialmente estraneo a tale lista. Secondo, perché la stessa Sel era divisa e tutto lascia pensare che una parte di essa abbia boicottato la Lista Tsipras.
Insomma, tenuto conto che numerosi comunisti e persone di sinistra hanno preferito non votarla, la Lista Tsipras ha ottenuto un risultato discreto e che in questa difficilissima fase rappresenta una boccata d’ossigeno.

domenica 18 maggio 2014

Perchè voterò la Lista Tsipras

Il 25 maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Prima di effettuare una scelta vanno fatte alcune considerazioni su che tipo di Europa vogliamo, soprattutto alla luce delle recenti politiche di tagli e di austerità.

Il giudizio da dare, non tanto all’Unione Europea, quanto alla zona euro (le due cose non coincidono, e infatti, come è noto, ci sono paesi aderenti all’Unione Europea, i quali hanno tuttavia mantenuto la loro valuta) è sicuramente negativo.
Le politiche di massacro sociale (austerity) che la Banca Centrale Europea (BCE) sta imponendo ai paesi più deboli sono precisamente una conseguenza di come è stata impostata la valuta comune, oltre che del fiscal compact (obbligo di dimezzamento del debito pubblico). L’euro è stato concepito per dare i massimi profitti alle banche (che si stanno arricchendo enormemente in questi anni) e alle multinazionali, mentre si rivela, invece, un vero e proprio grimaldello per attaccare i salari e scardinare tutto il sistema di protezione sociale, dalla sanità, alla scuola pubblica, alle pensioni, ecc.

La miseria che sta ritornando alla grande soprattutto in Grecia, ma sempre più anche in Italia e in altri paesi è una precisa conseguenza delle politiche economiche europee e di come è stato impostato l’euro.
Va da sé che una scelta saggia NON può essere indirizzata verso quei partiti che fanno capo alle forze europee che più convintamente appoggiano tali politiche nefaste, dunque il Partito Popolare Europeo (PPE) e il Partito Socialista Europeo (PSE).

Un’altra questione sicuramente da tenere presente è quella dell’Ucraina, sulla quale non mi soffermo, avendone già trattato nel mio precedente articolo.

Per quanto riguarda le elezioni per il Parlamento Europeo, andrebbe fatto anche un ragionamento sul ruolo di tale parlamento. Un ruolo purtroppo secondario: le decisioni più importanti sulle politiche economiche vengono prese dalla Commissione Europea e dalla BCE, i quali NON vengono eletti dai cittadini (tanto perché viviamo nell'Occidente 'democratico').
Ma, ciononostante votare per il Parlamento Europeo ha la sua importanza, specialmente se si intende portare avanti una battaglia per mettere in discussione le politiche liberiste e dell’austerity, oggi dominanti e che tanti danni stanno facendo.
Parlamento Europeo, infatti, significa quantomeno enorme visibilità.

 

Ora la questione è: per chi votare?
Beh, va da sé che –per chi condivide gli argomenti di cui sopra- occorre votare una di quelle liste che si battono contro le attuali politiche europee.
In Italia sono grosso modo 4: la Lista Tsipras, il Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e la Lega Nord.

Ora, Fratelli d’Italia, per quanto critichi giustamente le politiche europee, che favoriscono la Germania a danno di altri paesi, mi pare, però, che non riesca ad andare al di là della riproposizione di un generico nazionalismo, senza affrontare alcuni problemi economici e politici di fondo. Discorso simile va fatto per la Lega, molto incentrata sulla difesa territoriale e sostanzialmente basta.
Entrambe le formazioni, poi, ripropongono per l’ennesima volta la solita guerra tra poveri contro gli immigrati, la quale non può che favorire i ceti ricchi e parassitari, a danno di quelli popolari (autoctoni compresi).

Il M5S si dichiara anch’esso contro le politiche europee dell’austerity e il suo programma (7 punti) è molto buono, anche se stranamente quasi identico a quelli di Rifondazione e del PdCI. Ma, al di là dei soliti proclami “rivoluzionari”, la sua strategia concreta non è affatto chiara: con quale gruppo si schiereranno in Europa? Presumibilmente con nessuno, e quindi staranno da soli. Ma se in Italia con cento e passa deputati non sono –a distanza di oltre un anno- ancora riusciti a stravolgere granché, che cosa potranno fare in Europa, con una ventina di deputati?
Di concreto praticamente nulla. Faranno le loro solite azioni teatrali (aspettiamoci diversi “show”; sono la loro specialità), ma ci sarà qualche altro europeo disposto a prenderli sul serio?

Rimane la Lista Tsipras.
La quale, lo dico francamente, NON mi entusiasma. Intanto perché è troppo eterogenea. E troppa eterogeneità non va bene, soprattutto quando ci sono questioni cruciali, come le politiche europee che stanno massacrando i diritti dei popoli, e sulle quali andrebbe presa una posizione netta (purtroppo non tutti i candidati della lista andranno nel gruppo del GUE/NGL, qualcuno andrà nel PSE).
Ma la Lista Tsipras rimane anche l’unica in cui ci sono dei buoni candidati, che andranno sicuramente nel GUE (essenzialmente quelli di Rifondazione Comunista). E sono proprio questi quelli che secondo me, vanno votati.

mercoledì 7 maggio 2014

In Ucraina si rasenta il genocidio. E l'Occidente guarda compiaciuto...

L’intervento militare repressivo del governo golpista ucraino contro la popolazione ribelle si sta rivelando un brutale massacro. Centinaia di civili, in gran parte disarmati, sono stati uccisi dall’esercito, coadiuvato da bande di neo-nazisti dichiarati.
L’atto più grave (almeno sinora) è sicuramente quello accaduto a Odessa: bande di nazisti, armate di tutto punto, sono arrivate nella città da fuori e hanno terrorizzato la popolazione.
Decine di persone disarmate hanno cercato di trovare rifugio nella locale sede sindacale, ma il gruppo paramilitare di estrema destra “Pravy Sektor” è arrivato a dar fuoco all’edificio, con la gente dentro. Molti sono morti carbonizzati e altri buttandosi giù disperatamente dalle finestre. Chi riusciva a scappare dall’edificio veniva poi selvaggiamente picchiato e bastonato dalle bande criminali.
 

Il problema è che queste bande criminali di estrema destra –che, neanche a dirlo, la stanno passando liscia- sono appoggiate dalla stessa giunta golpista. La quale è a sua volta appoggiata dagli Stati Uniti, in funzione anti-russa.
Anche i paesi europei, contrariamente ai loro interessi, appoggiano tale governo. Perché?
Semplice: per suddittanza nei confronti della loro madrepatria, cioè, gli Stati Uniti.

Il colpo di Stato ucraino, appoggiato in vari modi dall’Occidente (esponenti dei governi europei e statunitensi, tra cui il senatore Mc Cain, si sono ripetutamente recati in Piazza Maidan ad incitare alla rivolta; un’intromissione senza precedenti) non è avvenuto per caso: è, almeno in parte, la conseguenza del fallito tentativo di scalzare il governo di Assad in Siria. Fallimento dovuto –lo ricordiamo- proprio al fatto che la Russia si era opposta ad un intervento militare della NATO nel paese mediorientale.

Ma ovviamente non è solo una questione di vendetta: c’è, intanto, anche un interesse geo-strategico.
L’obbiettivo è quello di far diventare l’Ucraina un paese della NATO -e quindi direttamente controllato dagli USA- per poter così subito installare i missili nucleari a poche centinaia di chilometri da Mosca.
 
Ma c’è un’altra questione ancora più importante (e collegata alle precedenti): il gas russo.
Non so quanti di voi hanno chiaro in che misura l’Europa sia energeticamente dipendente dal gas russo. E ciò non può che costituire una spina nel fianco degli americani, che ovviamente vorrebbero portare gli Stati europei ad una condizione di dipendenza totale da essa.
Quindi scopo degli americani è quello di sganciare l’Europa dalla Russia e renderla completamente suddita.
Ciò comporterà per noi dei problemi immensi: se la Russia dovesse “chiudere i rubinetti” aspettiamoci, nei prossimi anni, fortissimi aumenti dei prezzi di qualsiasi genere. Inoltre dovremo probabilmente accollarci le spese per il rifornimento del gas in Ucraina (dato che lo Stato ucraino è sull’orlo della bancarotta e se continua a non pagare Mosca gli chiude i rubinetti).

E c’è un’altra questione ancora, anch’essa strettamente connessa alle altre.
Il contesto economico mondiale attuale vede la Cina prossima a diventare la prima economia mondiale, scalzando gli Stati Uniti, i quali detenevano tale primato dal 1872 (lo sostiene il Financial Times). A ciò va aggiunto che il gigante asiatico detiene gran parte del debito americano.
A livello economico (ma anche politico) la Cina sta stringendo rapporti sempre più stretti con molti paesi, e in modo particolare con i paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
Uno degli obbiettivi su cui stanno lavorando questi paesi è quello di scalzare il dollaro come moneta mondiale e sostituirlo con un paniere di monete di diverse nazioni.
Inutile aggiungere come tale prospettiva sia fumo negli occhi degli Stati Uniti, che perderebbero enormi privilegi economici che oggi derivano proprio dalla natura di moneta mondiale del dollaro.

Tutto ciò sta dietro le brutali violenze in Ucraina. E’ un peccato che la nostra (dis) informazione sia totalmente asservita agli interessi forti e in ultima analisi agli USA e che, anche per questo motivo, in Italia (e in tutta Europa) non si stia sviluppando un movimento per la pace proprio ora che ce ne sarebbe più bisogno.
E’ difficile, infatti, prevedere il corso dei futuri eventi. Ma, certo, l’Ucraina non è lontana come l’Afghanistan o l’Iraq. Fa parte dell’Europa. E le tensioni, si sa, ci mettono poco ad allargarsi.