lunedì 14 dicembre 2015

Le Pen...e della sinistra. Francese e non solo

Quando si parla di “sinistra” in Italia oggi occorre sempre fare una premessa, visto lo stravolgimento che ha subito il significato di questo concetto negli ultimi decenni in diversi paesi europei e in modo particolare proprio nel Bel Paese.

Per “sinistra” –nel suo concetto politico originario e tuttora valido in quasi tutto il mondo, tranne che da noi- si intendono quelle politiche in difesa dei lavoratori (e, più in generale, dei ceti popolari) dalla grande borghesia.

Ossia, la sinistra è quella che ci dovrebbe difendere dagli attacchi di quella classe dirigente, oggi concentrata soprattutto nelle grandi banche e nelle multinazionali (o transnazionali), cioè nel grande capitale finanziario. Che è quella che in definitiva ha il potere maggiore e che domina la politica, come s’è visto in modo molto evidente l’estate scorsa con le vicende relative alla Grecia.

 
E ciò che è accaduto ora in Francia con le ultime elezioni, in cui il Front National di Marine Le Pen si è ritrovato ad essere il primo partito, ha molto a che fare con questi discorsi.

Infatti, il governo del “socialista” (altro termine completamente stravolto) Francois Hollande ha fatto l’esatto opposto di quella che dovrebbe essere in teoria una politica di sinistra.

 
In sostanziale continuità con Sarkozy, Hollande ha mantenuto intatte le politiche liberiste, dettate oggi soprattutto dall’UE e dalla BCE.

E quindi, ad esempio, nulla ha fatto per contrastare le dinamiche che stanno indebolendo e disgregando il tessuto produttivo d’oltralpe (cosa che accade anche da noi in Italia), grazie alle delocalizzazioni e alla conseguente de-industrializzazione, oltre che alla crisi economica (la quale potrebbe essere efficacemente contrastata da altre politiche economiche, che però nell’Europa di oggi sono tabù).

 
Tutto ciò si ripercuote nella società francese con la perdita di migliaia e migliaia di posti di lavoro, aumento della disoccupazione, della precarietà e in generale con il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Tali dinamiche sono poi ulteriormente amplificate dalla forte immigrazione (anche di italiani) in quel paese, fattore che oggettivamente produce una concorrenza tra lavoratori “autoctoni” e “stranieri”.

 
Hollande –come Sarkozy- ha inoltre portato avanti una politica guerrafondaia, intervenendo militarmente in diversi scenari, soprattutto nel Mali (Africa Centrale) e recentemente anche in Siria, in risposta ai recenti attentati (chissà, forse fatti apposta) a Parigi.

 
La politica del “socialista” Hollande, dunque, è stata a tutti gli effetti una politica di destra, inteso come difesa degli interessi dei grandi potentati economici.

 
Oggi come oggi i ceti popolari francesi –come quelli italiani- vivono in un clima di crescente insicurezza: dalla paura di perdere il posto di lavoro (per chi ce l’ha), alla paura di non trovarne uno, o quantomeno uno decente e non precario (per i disoccupati), e in generale dal timore di perdere sempre più quel relativo benessere di cui avevano goduto dal dopoguerra ad oggi.

A ciò si vanno ad aggiungere gli attentati terroristici e il clima di islamo-fobia (così ben alimentato dalle distorsioni mass-mediatiche), se non proprio di xenofobia, che si sta diffondendo.

 
Tutto questo mix di incertezze, unite alla mancanza, o debolezza, della vera sinistra –che in Francia è rappresentata ormai dal solo Front de Gauche- hanno prodotto un cocktail micidiale, che elettoralmente si traduce da una parte nell’aumento dell’astensionismo e, dall’altra, nel recente risultato del FN.

 
Il sentimento anti-europeo (e, mi pare, sempre più anche anti-NATO) di per sé è positivo, se consideriamo il fatto che l’Unione Europea (e soprattutto l’euro) è stata plasmata per seguire gli interessi del capitale finanziario e a danno dei lavoratori e delle popolazioni. E quindi questi ultimi se ne stanno chiaramente rendendo conto.

 
Il problema è che questi giusti sentimenti vengono strumentalizzati dalle varie forze di destra o qualunquiste, le quali non hanno –e non possono avere- un vero e proprio progetto di trasformazione sociale in senso progressista, ma si limitano ad una generica difesa nazionalistica (in un mondo che si sta globalizzando), arrivando in alcuni casi ad incitare alla guerra fra poveri (che ai ricchi fa tanto comodo). Oppur, come nel caso del M5S, ad un “governo degli onesti”, che suona tanto bene, ma è poco chiaro e lascia spazio a mille interpretazioni (per quanto riguarda le scelte politiche). Anche perché la critica ai “politici disonesti” è superficiale e non va a sviscerare a fondo il problema centrale dei rapporti economici e di classe.

 
La lotta contro le politiche liberiste (di cui l’UE e la BCE sono capisaldi) è e deve ridiventare patrimonio della vera sinistra, quella che difende i lavoratori e i ceti popolari.

E, allo stesso modo, la lotta per uscire fuori dalla NATO e dalle politiche guerrafondaie, che sono proprio quelle che in questi anni hanno alimentato il terrorismo (piuttosto che combatterlo, vedi Afghanistan, Iraq, Libia e Siria).

mercoledì 9 dicembre 2015

Venezuela. La sconfitta dei bolivariani e il ricatto economico.

Il nefasto risultato delle elezioni legislative venezuelane del 6 dicembre, in cui –per la prima volta da oltre 15 anni di rivoluzione bolivariana- ha vinto l’opposizione conservatrice, legata alle oligarchie economiche e soprattutto agli Stati Uniti e alle sue multinazionali, merita sicuramente una piccola riflessione.

Per chi non lo sapesse, intanto, ricordo che nel Venezuela dal 1999 c’è stato un governo che aveva rotto con la tradizione dei precedenti governi, i quali avevano sempre operato per sostenere gli interessi economico-politici degli USA (in piena ottica da “cortile di casa”), oltre che della locale elìte, a danno di un popolo, tenuto da sempre nella povertà, nell’emarginazione, nell’ignoranza e in gran parte confinato a vivere nelle malsane baraccopoli.

Nel ’99 ci fu la svolta: i governi “bolivariani”, capeggiati dalla ormai mitica figura di Hugo Chàvez (morto poco meno di 3 anni fa, quasi sicuramente per avvelenamento), per la prima volta –sfidando gli Stati Uniti- hanno utilizzato i proventi del petrolio, di cui il Venezuela è ricco, non per continuare ad arricchire i soliti noti, bensì per programmi sociali, finalizzati a portare istruzione, sanità, lavoro e servizi sociali, e per politiche abitative in favore dei baraccati.
Va ricordato che, proprio per questo motivo, gli USA hanno tentato in tutti i modi di sabotare tale processo, anche con un tentativo (fallito) di Colpo di Stato, nel 2002.
Morto Chàvez, a dirigere la rivoluzione bolivariana è rimasto Nicolàs Maduro, figura, certo, molto meno carismatica del primo.

Ora, con la maggioranza filo-USA e filo-oligarchia finanziaria, tale processo di grande avanzamento e conquiste popolari sembra destinato quantomeno ad una battuta d’arresto, se non arretramento (anche se il presidente del Venezuela rimane, però, per il momento sempre Maduro).

Ma perché è potuto accadere questo?
Lungi da me un’analisi dettagliata, che richiederebbe sicuramente ben altri tempi e spazi. Mi limito semplicemente a focalizzare un elemento, che è stato di sicuro determinante e centrale in questa sconfitta: il tremendo attacco economico che il Venezuela ha subito ad opera degli Stati Uniti.
In modo particolare, la politica di abbassamento del prezzo del petrolio –portata avanti principalmente per piegare la Russia, ma con scarso successo- è stata particolarmente disastrosa per un paese come il Venezuela, che campava su questa ricchezza.
E ciò s’è andato ad aggiungere ad altri interventi, come il massiccio finanziamento (sempre da parte USA) alle forze politiche dell’opposizione. E ad altri problemi, tra cui, certo, anche errori del PSUV (il partito protagonista della “rivoluzione bolivariana”).

Possiamo forse intravedere per certi aspetti un’analogia con le vicende greche di quest’estate: fatte le dovute differenze –e sono tante- fra i due casi, i grandi poteri finanziari sono riusciti a piegare quest’estate il Governo Tsipras e ora quello bolivariano, utilizzando un meccanismo simile: il ricatto economico.
 

Questa osservazione ci dovrebbe portare –molto sinteticamente- a due conclusioni.
La prima è che ad una forza rivoluzionaria (o anche semplicemente progressista nell’Europa di oggi) non basta andare al governo, per poter cambiare radicalmente le politiche liberiste.
Occorre necessariamente poter incidere sui meccanismi economici, quindi bisogna aver potere sulle leve economico-finanziarie del paese, altrimenti il ricatto economico finirà inevitabilmente per snaturare o sconfiggere le politiche progressiste.
Certo, ciò verrebbe subito tacciato di “totalitarismo”, ma evidentemente il “totalitarismo” già esiste oggi, se è vero –e lo stiamo amaramente constatando- che una forza politica che vince le elezioni e va a governare, è poi impossibilitata a procedere a causa dei ricatti economici dell’elite finanziaria.

La seconda è che agire a livello nazionale, almeno in un paese di piccole o medie dimensioni, non è sufficiente per poter scardinare meccanismi che sono quantomeno continentali. E questo l’abbiamo visto soprattutto quest’estate in Grecia, dove un governo che ha provato a sfidare i potentati bancari europei, s’è ritrovato isolato e quindi a dover cedere di fronte alla Banca Europea.

In America Latina per la verità il Venezuela non è proprio isolato, dato che le tendenze progressiste degli ultimi 10-15 anni hanno coinvolto –in modo diverso- diversi paesi importanti (Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, Uruguay). E si sono creati e sviluppati importanti organismi economici ultranazionali (Alba, Mercosur) volti a rafforzare i legami tra i paesi dell’America Latina.
Ma una vera e propria integrazione del continente è ancora lontana (la stessa Argentina ha recentemente visto la sconfitta elettorale della Kirchner e il ritorno al potere dell’oligarchia filo-americana).

Ma intanto, nel silenzio mediatico, altre situazioni stanno cambiando. Pochissimi sanno che nel Burkina Faso (in Africa Centrale, per chi non lo sapesse) è forse in atto una seconda rivoluzione, dopo quella degli anni 80 di Thomas Sankara, repressa a suo tempo dai francesi. Forse. Ma la situazione è da seguire.

lunedì 2 novembre 2015

Marino, un eroe borghese. Molto, molto borghese!

Se l’ormai ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, quando venne eletto, avesse avuto nel suo programma quello di far discutere di sé, bisogna proprio dire che ci è riuscito alla perfezione.
Mai sindaco di Roma è stato così “chiacchierato” come lui. E in soli due anni di governo.

Marino è stato capace come forse nessuno di dividere il campo in sostenitori e iper-critici.
Però, come accade spesso nella politica italiana degli ultimi decenni, molti dei giudizi –positivi o negativi che siano- sono strumentali e dettati da interessi o quantomeno da superficialità.
Si è arrivati al punto che all’(ex) sindaco sono state attribuite le responsabilità di tanti mali che la capitale si porta appresso da decenni.

La mia, non vuole certo essere una difesa di Marino.
Ma, arrivati a questo punto, sarebbe il caso di elencare (molto sommariamente) pregi e difetti dei suoi due anni da sindaco di Roma.

Pregi:

Ignazio Marino è stato –da 20 anni a questa parte- sicuramente il primo sindaco ad aver provato a contrastare una serie di lobbies affaristiche (se non criminali) che governano di fatto Roma da tempo.
Non dimentichiamoci che gli ultimi sindaci (Rutelli e Veltroni) erano stati complici di un sistema di gestione corrotto e fraudolento di servizi pubblici, noto ormai come “Mafia-capitale” (Buzzi, Carminati, Oldevaine, ma anche palazzinari, come Parnasi, ecc.). Con Alemanno, poi, tale sistema di malgoverno era arrivato a toccare vette altissime, come dimostra Parentopoli e magagne varie (tra le quali la libertà per il consorzio Metro C di continuare a chiedere ed ottenere finanziamenti, senza alcun vincolo temporale per i lavori).

Numerosi sono stati gli interventi di Marino volti a contrastare gran parte di questo malaffare. Tutto il linciaggio mass-mediatico a cui è stato sottoposto il sindaco-chirurgo è scaturito proprio da ciò. Ossia, dall’aver calpestato i piedi alle lobbies affaristico-mafiose (non ci dimentichiamo che il quotidiano romano per eccellenza, Il Messaggero, appartiene a Caltagirone).
Sotto questo punto di vista, Marino è da considerarsi una figura se non eroica, quantomeno coraggiosa. E gliene va dato merito.

Difetti:

Personalmente credo poco alla retorica dell’eroismo, a maggior ragione quando si gestisce una città come Roma, molto eterogenea per condizioni economiche, sociali, lavorative ed etniche, e con una popolazione di oltre 3 milioni (se consideriamo anche i pendolari che vi lavorano, gli studenti fuorisede e altri non residenti).

Quindi –sinteticamente- se uno contrasta delle lobbies, deve per forza di cose appoggiarsi ad altri settori sociali ed economici.
A chi si è appoggiato Marino?
Non è chiaro esattamente quali sono stati i gruppi di potere che l’hanno sostenuto, ma posso dire con sicurezza a chi Marino NON s’è assolutamente appoggiato, anzi ha combattuto (assieme alle lobbies affaristiche): i lavoratori, i ceti popolari, gli abitanti delle periferie degradate.

Numerosi sono stati i tagli ai servizi fondamentali, al salario di migliaia di lavoratori. Le assunzioni sono state bloccate, mentre diversi servizi indispensabili (tipo il trasporto pubblico), soffrono di una carenza di personale spaventosa.
Per non parlare della vergognosa uscita di Marino contro i lavoratori del Colosseo, “colpevoli” di aver voluto fare un’assemblea (diritto basilare; e comunque regolarmente annunciata con giorni d’anticipo).

Allo stesso modo, il sindaco, proseguendo la politica dei suoi predecessori, ha trascurato le periferie –ossia, i quartieri dove abitano soprattutto i ceti popolari- e s’è preoccupato soltanto di abbellire la vetrina del centro storico.

Conclusione:

Nonostante tutta la canea che è stata fatta intorno a Marino, su un punto egli è stato in perfetta continuità con i sindaci che l’hanno preceduto: nell’essere stato un sindaco borghese e nel rappresentare gli interessi generali di quella classe sociale.
Le complicazioni nascono dal fatto che però la borghesia è tutt’altro che un blocco unito. Essa si divide, intanto, in piccola, media e grande borghesia. E vi sono feroci conflitti di interesse non solo fra questi tre spezzoni di borghesia, ma anche all’interno di ciascuno di questi settori.
E questo spiega tutte le polemiche e i contrasti che ci sono stati intorno alla Giunta Marino.

Sono lontani i tempi in cui Luigi Petroselli poteva governare Roma, facendo anche gli interessi dei ceti popolari (e risanando molte borgate dall’emarginazione e dalla criminalità). E senza far pagare il costo ai lavoratori.
Certo, era bravo lui, ma era soprattutto il contesto politico-sociale ad essere diverso: allora c’era il PCI, i lavoratori erano molto più organizzati e combattivi e facevano valere i loro interessi.
Quanti passi indietro abbiamo fatto in Italia da allora…

domenica 25 ottobre 2015

Guerra all'Isis. La Russia fa sul serio

Ufficialmente è un anno che gli USA sono in guerra contro l'Isis. Con risultati trascurabili, per non dire nulli.
Tra l’altro, un paese che è stato capace di scoprire l'acqua su Marte e che dispone di un controllo satellitare potentissimo e estremamente dettagliato, non è stato tuttavia in grado di accorgersi delle colonne di Toyota dei miliziani dell'Isis che avanzavano nel deserto (nel deserto!) verso Palmira o verso altri siti.
Ci doveva pensare la Russia.


Chiamata dal Presidente Assad (eletto dal suo popolo con l’88% dei voti), l'aviazione russa nel giro di tre settimane ha distrutto decine e decine di centrali operative, di campi di addestramento, di depositi di armi e munizioni e di roccaforti dello "Stato Islamico" e di Al Nusra (ossia Al Qaeda, gli stessi presunti attentatori delle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, e che, non si sa bene per quale motivo, adesso gli USA li considerano l'opposizione "moderata" ad Assad e da sostenere).

L'esercito siriano, grazie a questi interventi, sta riprendendo a poco a poco il controllo di vaste aree nelle province di Hama, Latakia, Idlib, Homs, Aleppo e nella stessa Damasco.
I miliziani tagliagole dell'Isis sono in ritirata un po' dappertutto nel territorio siriano. Numerosi di loro sono fuggiti soprattutto in Turchia (guarda caso...) e si moltiplicano i casi di diserzione.

Un simile successo in meno di un mese crea un fortissimo imbarazzo agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali, Francia in primis.
Anzi, più che imbarazzo: sta smascherando –di fatto- il doppio gioco di paesi, i quali da una parte si vantano tanto di combattere il terrorismo e dall’altra parte il minimo che si possa dire è che lo lasciano agire indisturbato.
L’obbiettivo dell’Occidente, infatti, è l’abbattimento del cosiddetto “regime di Assad”, colpevole di non piegarsi ai diktat degli USA.

Naturalmente la reazione dei paesi della NATO non s’è fatta attendere: a livello mass-mediatico all’inizio s’è subito detto –senza dimostrarlo- che i bombardamenti dei russi avrebbero colpito la popolazione civile, e in seguito è caduto il silenzio-stampa e della Siria e dell’Isis non se ne parla più.

Ma l’intervento di Putin ha una valenza che va ben al di là della Siria e della sconfitta dell’Isis (e di Al Nusra): diversi paesi del Medio Oriente –fra cui Iraq ed Egitto- ora incominciano a sentirsi più protetti da parte della Russia, a scapito degli americani, e stanno sempre più rafforzando i loro legami con Mosca.
In pratica, gli equilibri geo-politici nel Medio Oriente stanno mutando a favore della Russia e a sfavore degli Stati Uniti.
E’ definitivamente tramontato il periodo –seguito alla fine dell’Unione Sovietica- in cui gli USA erano rimasti l’unica superpotenza mondiale e potevano fare il bello ed il cattivo tempo un po’ ovunque.

Questo fatto, in sé, è positivo.
Il problema è che potrebbe portare anche a conseguenze tutt’altro che positive: Washington, infatti, non si lascerà soffiare via il suo primato politico-militare così facilmente e quindi corriamo il serio rischio che gli USA scatenino una guerra di portata e di intensità maggiore di quelle degli ultimi anni.
E l’Italia, che fa parte della NATO e che ha tuttora i suoi militari in Afghanistan, potrebbe benissimo esserne coinvolta. Anche perché tra l’altro nel nostro territorio esistono qualcosa come 90 ordigni nucleari USA.

Mai come ora ci sarebbe urgente bisogno di un forte movimento pacifista nel nostro paese, che porti in piazza milioni di persone.
Ma gli italiani sono troppo impegnati a controllare gli scontrini di Marino…

martedì 22 settembre 2015

profughi verso l'Europa e campagne mediatiche

Nell’ultimo mese abbiamo assistito ad una forte campagna mediatica sul problema dei profughi, che fuggono dalle loro terre (Africa, Medio Oriente) per approdare nella “ricca” Europa.
Personalmente ho imparato a diffidare di queste campagne mediatiche, a volte martellanti, che di solito ci presentano un problema -che magari esiste da decenni- come se fosse un’emergenza degli ultimi tempi, quando non un pericolo urgente.
Per poi, dopo qualche settimana, sparire dai riflettori, dandoci la sensazione quasi che il problema non esista più.

Innumerevoli sono state negli anni scorsi, ad esempio, le campagne sulla criminalità, specie sotto le elezioni. Fenomeno presentato di modo che incutesse terrore, nonché richiesta di “sicurezza”.
E poi, passate le elezioni, inspiegabilmente i delinquenti si danno una calmata e, anzi, sembrano addirittura scomparire.
tesso discorso sui pedofili e tanto altro ancora.

La campagna mediatica recente sui profughi che invadono l’Europa presenta numerosi limiti.
Forse l’unico aspetto positivo di questa, è che dovrebbe aver chiarito a tanti il fatto che queste sono, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, persone disperate che fuggono dalla guerra, o comunque da condizioni di vita impossibili (tranne i razzisti incalliti, ma, si sa: c’è gente che ancora oggi è convinta che la Terra sia piatta).

Però, a parte quello, siamo in presenza della solita campagna basata sulla disinformazione, ma –attenzione!- si tratta di una disinformazione “intelligente” e oserei dire subdola.
Intanto, infatti, c’è un tentativo di ridare un’immagine “buona” al governo tedesco della Merkel, come quello che accoglie “generosamente” i profughi.
E ciò dopo che a luglio ha mostrato, contro la Grecia, il suo volto più autentico, quello di affamatore dei popoli, per conto delle banche e del capitale finanziario, in genere.
Come se tutta questa ondata di stranieri disperati –e quindi disposti a lavorare per salari ridicoli- non verrà poi utilizzata per ricattare i lavoratori tedeschi (e non solo).

Un altro elemento di disinformazione è l’insistenza nel classificare i profughi come “siriani”.
In realtà tra i profughi che arrivano in Europa c’è di sicuro una forte componente di siriani. Ma ci sono anche numerosi iracheni, afghani, libici, e di tanti altri paesi.
Solo che in Afghanistan, in Iraq e in Libia, l’Occidente è intervenuto direttamente, invadendo quei paesi, per cui parlare dei profughi di quei paesi significherebbe ammettere il fallimento (per non dire l’orrore) di quelle guerre volute e condotte dai paesi sedicenti “democratici”.

Viceversa, in Siria il governo di Assad è ancora in piedi, nonostante l’enorme sforzo economico (e non solo) che USA, Arabia Saudita, Turchia (che fa parte della NATO), ma anche Francia e altri hanno profuso per liquidarlo, finanziando, armando e appoggiando formazioni quali l’ISIS e Al Nusra.
Quindi, insistere sul fatto che si tratta di profughi “siriani” fa sì che la gente sia portata a pensare che il problema stia nel governo di Assad –guarda caso, uno dei pochissimi nella zona a non piegarsi ai diktat statunitensi- e sia poi disposta ad accettare eventuali futuri interventi militari, presentati “contro il terrorismo”.
Come se non fossero stati proprio gli interventi militari occidentali degli anni scorsi (Afghanistan, Iraq, Libia) ad aver alimentato le ondate di profughi negli ultimi decenni.

 

Un altro elemento ancora di disinformazione, rispetto alla campagna mediatica sui profughi, sta nel presentare il problema, mettendo in contrapposizione le politiche “buoniste” di accoglienza nei loro confronti con quelle di chiusura (emblematico il muro issato dall’Ungheria fascista di Orban) e di presunta difesa del popolo autoctono, dagli “invasori”.

In realtà, riuscire a contenere l’imponente flusso di immigrati-profughi che arrivano nei “paesi ricchi” dai “paesi poveri” è, alla lunga, praticamente impossibile. Qualunque tipo di politica si metta in atto.
Anche discorsi del tipo “aiutiamoli a casa loro” si rivelano solo degli slogans, perché di solito non abbiamo ben chiaro che cosa veramente accade “a casa loro”.

Il discorso sarebbe lunghissimo, perché qui andiamo a cozzare con un fenomeno, che è poi la vera causa di fondo di questi imponenti movimenti umani di disperati in cerca di un luogo dove poter sopravvivere: il NEO-COLONIALISMO.
Ossia –sinteticamente- lo spolpamento, da parte dei paesi occidentali (e soprattutto delle loro multinazionali) dell’economia e delle risorse di tanti paesi africani e asiatici.
I quali rimangono solo formalmente indipendenti, ma hanno dei governi fantocci nelle mani dei potentati finanziari euro-americani.
Nonché il proliferare di guerre e conflitti apparentemente “locali”, ma quasi sempre finanziate dai paesi ricchi e dai loro colossi finanziari, interessati ad accaparrarsi le materie prime, i mercati e in ogni caso a vendere armi.

Di fronte a dinamiche di enorme portata come queste ci sentiamo impotenti.
Ma, in realtà, nel nostro piccolo, qualcosa possiamo fare.
E il primo passo per contrastare le politiche di sfruttamento e guerrafondaie, che portano con sé tali dinamiche migratorie massicce, è quello di fare un piccolo sforzo per superare diffidenze e ostilità e capire che l’immigrato non è un nemico, bensì una vittima –come spesso siamo anche noi, ma loro molto di più- delle dinamiche economiche dominanti, ossia, quelle capitalistiche.
E rendersi conto che gli immigrati possono, anzi, devono essere dei nostri alleati per contrastare chi sta iniziando ad affamarci anche a noi, con le politiche liberiste dell’austerity.

lunedì 20 luglio 2015

Syriza: comunque sia, grande prova contro la dittatura della Troika

Come c’era da aspettarsi, l’accordo Grecia-Europa seguito al referendum ha suscitato una valanga di commenti.
A prescindere dal giudizio che si possa dare circa l’operato finale di Alexis Tsipras –e più avanti esporrò il mio- è deprimente sentire (o leggere, ad esempio su facebook) così tanti commenti superficiali, schematici e soprattutto sganciati da qualsiasi riferimento ad un contesto, da qualsiasi considerazione circa i rapporti di forza concreti e privi spesso di una minima capacità di valutazione complessiva dei soggetti e degli attori in campo (ad esempio, concetti come “traditore” non aiutano a capire nulla): l’impressione a volte è quella di avere a che fare con i tipici commenti degli spettatori televisivi di una partita di calcio.

Prima dunque, di valutare la scelta finale di Tsipras, preferisco partire da alcune premesse.
La prima è che intanto Syriza, partito inequivocabilmente di sinistra, è riuscita, negli anni scorsi, a rappresentare il malcontento popolare e in genere i ceti popolari e i lavoratori. In Italia siamo lontanissimi da un simile risultato.
Forte di questa capacità, ha vinto le elezioni politiche, nonostante avesse contro persino un partito come il KKE, con un suo discreto radicamento tra i lavoratori.

Perlomeno fino al referendum, il governo di Syriza è rimasto fedele e coerente al mandato elettorale –unico caso in tutta Europa!- portando avanti misure che andavano decisamente controcorrente rispetto ai dominanti diktat liberisti.
Lo stesso ricorso al referendum è stato una sfida del tutto inedita, nel panorama politico europeo, nei confronti dello strapotere della Troika: un nano che sfida un gigante!

Contemporaneamente non vanno dimenticate le condizioni della Grecia -la miseria cresciuta negli anni scorsi, un’economia a terra- ma soprattutto il ricatto economico costituito dalla chiusura delle banche e dei bancomat (sarei proprio curioso di vedere come reagirebbero la maggioranza degli italiani che oggi gridano che bisogna uscire dall’euro, di fronte alla chiusura inoltrata dei bancomat).

Infine, l’ultima –ma non per importanza- premessa è quella di carattere internazionale, o meglio, di carattere intercontinentale, e riguarda i rapporti con altri attori, che hanno di sicuro giocato un ruolo importante nella vicenda, anche se vengono poco menzionati. Ossia, gli USA, in primis, poi la Russia e la Cina.
Infatti dalle mie (sicuramente limitate) informazioni, mi risulta che non solo gli americani, ma anche le altre due potenze non fossero d’accordo a che Atene uscisse dall’euro. E ovviamente parliamo di paesi che contano e pesano.

Finite le premesse, provo a dire una mia opinione.
Secondo me Syriza avrebbe dovuto fin da subito lavorare per preparare il cosiddetto “piano B”, ossia l’eventuale uscita dall’euro.
Intanto per un motivo banale: se il tuo nemico (perché tale va considerato) ha due alternative e tu ne hai una, vince lui.
E poi perché non solo le politiche di austerity, ma lo stesso euro –per come è strutturato- ha come conseguenza l’attacco al salario (diretto e indiretto, ossia il welfare-state) dei lavoratori e dei ceti popolari.

Infatti, a mio avviso occorrerebbe che non solo la Grecia, ma anche l’Italia incominciasse a pensare seriamente di uscire dall’euro.
Ma purtroppo la cosa non è così semplice: l’uscita dall’euro –demagogia a parte- è un percorso complicato e delicato, sia economicamente che politicamente, e deve essere ben preparato e seguito da diverse misure adeguate, altrimenti potrebbe portare per davvero alla catastrofe. Ma può e deve essere fatto, prima o poi.

L’errore di Tsipras, dunque, è stato quello di non ipotizzare tale possibilità.
Sempre che tale “errore” non sia stato condizionato –come già detto- da dinamiche geopolitiche e economiche intercontinentali.

Comunque sia, tanto di cappello e grande stima per un partito come Syriza, che rimane l’unico partito europeo che finora ha provato concretamente a fare politiche in contrasto con il dogma liberista. Almeno ci ha provato…

martedì 7 luglio 2015

Grande vittoria del popolo greco e miserie italiane.

Non credo che serva spendere troppe parole sullo strepitoso risultato del referendum del 5 luglio in Grecia, grazie al quale il popolo ellenico, a netta maggioranza, ha rigettato le politiche di austerity –ossia, di impoverimento sociale- imposte in modo ricattatorio dalla Troika (FMI, BCE, UE).
E’ la prima volta che un governo e un popolo in Europa osa sfidare lo strapotere del capitale finanziario euro-atlantico.

Staremo a vedere come si evolveranno i fatti (ma dobbiamo comunque tenere presente che non si trattava di un referendum pro o contro l’euro) e a cosa porteranno le inevitabili trattative.
Ed è ancora prematuro anche fare una valutazione, ad esempio, sulle strane ed improvvise dimissioni del Ministro Varoufakis.
Ma quello che è importante cogliere, io credo, è che grazie al Governo Tsipras e ai risultati del referendum, sono mutati i rapporti di forza: ora l’UE non potrà più imporre i suoi programmi come prima, ma è costretta a negoziare. Sempre che voglia farlo.
Ma, nel caso contrario, dovrà assumersi la responsabilità politica di cacciare la Grecia dall’Europa.

 

Ora veniamo in Italia.
Quando si parla di "miserie italiane", la prima cosa che viene in mente è il Governo Renzi e il Partito Democratico.
Non mi dilungo su questi, la cui critica è per me scontata. Ho sempre criticato il PD, fin dal momento della sua nascita (ossia, quando c'era Veltroni) e non ho certo meno motivi per farlo ora. Renzi e il PD li considero dei burattini al servizio delle banche e multinazionali (e delle politiche guerrafondaie USA).

Ma due paroline vanno spese anche sul malcostume -tipicamente italiano- di "salire sul carro del vincitore". La grande vittoria e il coraggio del Governo Tsipras e di Syriza, fanno sì che parecchi personaggi -in chiara ricerca di pubblicità- vadano ad Atene a festeggiare la vittoria.
Civati, Fassina, Grillo e Vendola, dopo aver fatto per anni una politica quantomeno ambigua –e comunque NON in sintonia con Syriza- ora vanno tutti ad Atene, sperando di riscuotere pubblicità –grazie alla complicità dei vergognosi media italiani, che fanno il loro gioco- e qualche voto in più.

Pippo Civati e Stefano Fassina fino a pochi mesi fa hanno contribuito, votandole, alle peggiori leggi e misure liberiste e di austerity, in linea con la Troika (Jobs Act e Riforma Fornero, tanto per dirne due) e sono stati dirigenti per 7 anni di un partito, il PD, che è quanto di più filo-BCE e filo-atlantico non si possa immaginare.

Beppe Grillo e il M5S, anche se agli occhi di molti italiani sprovveduti possono apparire vicini a Syriza, dato che anche loro sembrano contestare il potere e l’arroganza dell’Europa delle banche, sono in realtà molto, molto distanti da questa.
A parte il fatto che il M5S è per l’uscita dall’euro, mentre Syriza non lo è (anche se ovviamente deve valutare pure questa possibilità), Syriza è un partito (partito!!) espressamente di sinistra (la “A” di SyrizA sta per Aristera= sinistra). Inoltre è contrario alla xenofobia e ha un programma e una collocazione ben definiti.
Viceversa, il M5S parla a 360°, dice tutto e il contrario di tutto, parla di “onestà” (che in politica non vuol dire assolutamente nulla, potendo essere interpretabile in tanti modi diversi) e fa tanti bellissimi discorsi, ma poi non è chiaro il suo programma e soprattutto la sua collocazione politica. Sta di fatto che in Europa ha scelto di stare con le destre conservatrici e xenofobe.

Niki Vendola: il suo “errore” (e mi tengo moderato nei giudizi) più grave è stato quello di aver voluto far aderire SEL al PSE. Lo stesso slogan “con Tsipras, ma non contro Schulz” –slogan che rifletteva un chiaro scontro interno- appare oggi in tutta la sua ridicolaggine.
Meno male che molti compagni di SEL non hanno accettato l’entrata nel PSE, dimostrandosi assai più saggi del loro segretario.

L’unico personaggio veramente degno di stare ad Atene e di festeggiare la vittoria dei “NO” al referendum, è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista.
Il PRC in questi anni ha sempre espresso, in modo coerente e senza tentennamenti, una politica molto simile a quella di Syriza. Inoltre è stato il partito che ha promosso alle ultime elezioni europee la Lista Tsipras, che in Europa sta nello stesso gruppo con Syriza (GUE/GNL).

Anche per questo motivo i telegiornali e i quotidiani italiani hanno snobbato il PRC e Ferrero quasi del tutto.
Infatti, la miseria italiana, prima ancora che essere dei politici, è di tutto il sistema economico e mass-mediatico. Il quale non ha alcun interesse a cambiare le cose, ma solo a far pubblicità ai ciarlatani, ai voltagabbana e ai personaggi ambigui.

mercoledì 1 luglio 2015

Grecia: lotta di classe. Per loro e anche per noi.

Come dovrebbe essere noto, in Grecia il Governo Tsipras ha indetto per il 5 luglio prossimo un referendum per far esprimere il popolo greco sulle misure che la Banca Centrale Europea vuole imporre al paese, per ripagare il debito.

Va precisato che non si tratta di decidere l'uscita di Atene dall'euro, come qualcuno pensa. Syriza (il principale partito al governo) non ha mai detto di voler uscire dall'euro. Anzi, contrariamente a ciò che si vuol far credere, è intenzionata a ripagare il suo debito. Solo che il governo ellenico intende decidere sovranamente (ne avrebbe tutto il diritto) in che modo ripagarlo, ossia, dove recuperare le risorse per farlo.
E -per la prima volta- intende far pagare chi non l'ha mai fatto sinora, e cioè i ricchi e i grandi evasori fiscali (armatori in primis). Questi sono rimasti sostanzialmente intoccati dalle ben 5 manovre “lacrime e sangue” che ha subito la Grecia negli scorsi anni e che hanno ridotto vasti strati della popolazione a livelli di miseria che da decenni non si vedevano in un paese europeo.

Ebbene: è stato precisamente questo programma che all'Europa delle banche non è andato giù.
Il che dimostra come alla BCE non interessa tanto che la Grecia saldi il suo debito, quanto imporre a tutti i popoli (la Grecia funge da cavia) le politiche liberiste e di austerity, fatte di bassi salari, ricattabilità e debolezza dei lavoratori, pensioni da fame e privatizzazione della sanità e dei servizi sociali.

Va chiarito anche un altro equivoco: la Grecia NON si trova in queste condizioni perché in passato il suo Stato avrebbe fatto spese eccessive, o –come si dice- perché avrebbe truccato i cuoi conti pubblici (cosa che non doveva essere poi difficile da scoprire a suo tempo; e pare che anche altri paesi -tra i quali Francia e Germania- l’abbiano fatto).
Le spese statali della “virtuosa” Germania sono –in percentuale sul PIL- assai maggiori di quelle dell’Italia, a sua volta superiori di quelle elleniche.

Certo, la Grecia ha, di suo, un’economia storicamente debole.
Ma l’Europa unita non era stata a suo tempo presentata proprio come un’opportunità anche e soprattutto per i paesi deboli? Una vera unità europea non dovrebbe favorire investimenti (controllati, certo; nessuno parla qui di sovvenzioni a pioggia) diretti proprio alle zone più arretrate per far sviluppare un po’ tutte le economie, e realizzare, così una VERA integrazione?
Tra l’altro una politica di investimenti in Grecia (e non solo) darebbe un notevole contribuito a sviluppare un’economia tale, che ora Atene non avrebbe alcun problema a ripagare il debito.

 

Ma il problema è che l’Unione Europea è rigorosamente liberista, ossia, strettamente dipendente dalle leggi del capitalismo. Per cui, gli Stati non devono investire.
Lo dovrebbero fare i privati, ossia, i capitalisti, ma dato che a questi, specie in tempi di crisi economica, gli investimenti spesso non convengono -e quindi non si fanno- essi cercano di realizzare i loro bei profitti rivolgendosi alle speculazioni finanziarie. Le quali si alimentano –guarda caso!- proprio sui debiti sovrani.

Dunque, alla BCE (organismo non eletto dai cittadini, ma quello che di gran lunga ha il maggior potere nell’area-euro) interessa solo far fare profitti alle banche, sfruttando il debito pubblico e riducendo vasti strati di popolazione senza lavoro, senza pensioni, senza servizi e in miseria.
Il popolo ellenico è da considerarsi, sotto quest’aspetto, semplicemente come apripista: poi toccherà agli spagnoli, ai portoghesi, agli italiani e altri ancora.

Il debito pubblico o sovrano, tra l’altro, non è un fenomeno così anomalo e negativo come ci vogliono far credere. In realtà il debito pubblico ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’economia capitalistica. Non a caso, lo stesso Karl Marx ne parla più volte nei suoi libri sull’economia.

Tornando alla Grecia, staremo a vedere ciò che uscirà dal referendum del 5 luglio prossimo. Vedremo se si troverà comunque alla fine un accordo, oppure se Atene uscirà dall’euro.
Ma la cosa importante da capire è che la battaglia che stanno portando avanti i greci ha un fortissimo valore anche per noi: se il popolo greco vincerà sui ricatti europei, anche per noi italiani in futuro sarà meno dura; se loro perdono, aspettiamoci presto misure “lacrime e sangue” anche da noi.

Ma forse c’è anche un’altra speranza: i BRICS (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Sembra infatti che soprattutto la Russia e la Cina siano intenzionate ad intervenire, finanziando la Grecia e facendo investimenti (cosa che avrebbe dovuto fare un’Europa veramente unitaria).
Verificheremo se e come accadrà e con quali esiti. L’importante è che il mondo sta cambiando e la tirannia del FMI-BCE-Commissione Europea (la “troika”) stia sempre più perdendo il suo monopolio, oltre che credibilità.

E, determinante sarà intanto la vittoria del “NO” al referendum greco del 5 luglio.

lunedì 1 giugno 2015

Roma, il problema non è solo Marino (ma anche lui)

Inizio con una premessa doverosa: non sono affatto contento dell’operato complessivo del sindaco di Roma, Ignazio Marino, e non intendo certo giustificarlo.
Diciamo che Marino, più o meno come i sindaci precedenti, sta dimostrando di agire soprattutto per favorire i classici “poteri forti” della capitale.
Ma non è che mi fossi mai illuso che potesse fare diversamente. Infatti alle ultime elezioni comunali l’ho votato solo al ballottaggio e solo per non far rivincere Alemanno, il quale ultimo ritengo sia stato capace di essere anche peggio dell’attuale sindaco.

Ma più che al paragone con Alemanno, il sindaco Marino sembra –apparentemente- sfigurare ancor di più nei confronti di Veltroni.
In realtà se quest’ultimo è stato a suo tempo eccessivamente osannato (si arrivò addirittura a parlare di un molto discutibile “modello Roma”), l’attuale primo cittadino di Roma viene, secondo me, criticato in modo un po’ troppo esagerato.

A dir la verità è difficile fare un paragone tra Veltroni e Marino, dato che è cambiata la fase politico-economica: le politiche nazionali di austerity e di riduzione del debito pubblico hanno imposto pesanti tagli, in questi ultimi anni, da parte dello Stato Italiano nei confronti degli Enti Locali, e quindi anche del Comune di Roma.
Ossia, tradotto in parole semplici: se oggi ci fossero Rutelli, Veltroni o Alemanno, con tutta probabilità si comporterebbero in modo simile a Marino.

Il quale sta effettuando tagli su parecchi servizi fondamentali, come i trasporti (!), la cultura, gli asili-nido e tanti altri servizi, il che porta delle conseguenze significative (negative) per quanto riguarda l’occupazione.
Ma su questo Marino è in linea con Renzi, il quale a sua volta è in linea con le politiche europee di tagli al bilancio. Tutto parte dall’Europa (delle banche e delle multinazionali). E’ perfettamente inutile attaccare Marino se poi non si mettono in discussione anche le politiche europee di austerity.

Ma i grossi nodi per il futuro sono due: le privatizzazioni e la cementificazione.
Oggi il mondo dell’imprenditoria –sempre affamato di profitti- sta puntando sempre più alle privatizzazioni di quei settori, nei quali il profitto è massimo, dato che operano in un regime di monopolio e gli investimenti limitati.
Ossia, sui servizi ai cittadini: acqua, luce, sanità, trasporti, scuole, ecc.
Non è un caso che Caltagirone, il noto palazzinaro, sta sempre più puntando su ACEA.

Ma ormai dovremmo aver fatto esperienza di che cosa sono le privatizzazioni.
Negli anni ’90 in Italia c’era il mito del privato e del mercato e si pensava che questi avrebbero –grazie agli investimenti e alla concorrenza- migliorato i servizi, e magari anche abbassato i prezzi.
L’esperienza di Alitalia, della Telecom, dell’ILVA, delle FS e tanto altro hanno ampiamente dimostrato che privatizzazione significa soprattutto enorme perdita di posti di lavoro.
Ma tutto questo miglioramento dei servizi non s’è visto. E non s’è visto nemmeno l’abbassamento dei prezzi, anzi.

Inoltre, “Mafia-capitale” ha dimostrato che la corruzione e gli sprechi arrivano ai massimi livelli non quando un servizio è gestito direttamente dal pubblico, bensì quando viene appaltato ai privati, cosa che oggi da noi è diventata la norma.
Anzi, molto del degrado e dell’inefficienza dei servizi della capitale è dovuto proprio alla gestione speculatoria dell’emergenza, che finisce per essere una grande fonte di introiti per qualcuno, il quale quindi non ha alcun interesse a risolvere i relativi problemi.

A Roma avanza (tanto per cambiare) la cementificazione. Con tutto ciò che comporta: abusivismo, dissesto idrogeologico, inquinamento, danni ambientali ed ecologici.
Nonostante tutto ciò, l’espansione edilizia è lontana dal risolvere il problema abitativo, che opprime migliaia di famiglie, ed è invece finalizzata solamente alla speculazione.

 

Roma sarebbe veramente una città meravigliosa, se iniziasse ad essere gestita non più per gli interessi di una casta di pseudo-imprenditori affaristi e speculatori senza scrupoli, ma in funzione dei cittadini di ogni estrazione sociale e in un’ottica di efficienza e di sostenibilità.
E’ chiaro che non possiamo aspettarci questo né da Marino, né da Alemanno, né da tutti quelli che rappresentano gli interessi delle cricche affaristiche (tipo Marchini).
E a maggior ragione non possiamo aspettarcelo, finché l’Italia continuerà a rimanere succube delle politiche liberiste e di austerity che ci impone l’Europa.

N.B.
Il discorso è necessariamente ultra-sintetico, ma per chi voglia approfondire l’argomento esiste un’interessante analisi in un documento (Roma 2030) che linko:

sabato 23 maggio 2015

Palmira: quando gli interessi geopolitici prevalgono sulla cultura


Credo che tutti abbiano quantomeno sentito parlare di Palmira.
Città antichissima, che si trova nell’attuale Siria e le cui rovine sono state dichiarate dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

Ma, per chi fosse a digiuno di storia e archeologia, un accenno non guasta.
Palmira è una città antichissima, che si trova in un’oasi del deserto siriano, ed è stata particolarmente fiorente e ricca sotto l’Impero Romano. Noto è il regno (effimero) della regina Zenobia, in cui Palmira s’era separata dall’impero, e aveva grandi ambizioni di conquiste, ma venne poi riconquistata dai romani.

Oggi rimangono le rovine di quella città antica. La quale, essendo stata abbandonata nel medioevo, oggi rimane semi-intatta, quasi una sorta di Pompei siriana.

Se non ché, oggi la furia devastatrice dell’Isis (lo “Stato Islamico”), minaccia di distruggere queste rovine. Se lo facesse, sarebbe una perdita inestimabile per il patrimonio storico-artistico mondiale, paragonabile forse alla perdita del Colosseo.
A difendere il sito oggi è soltanto l’esercito regolare siriano (quello fedele al Presidente Assad, per intenderci).

Al momento in cui scrivo non è chiaro se la città di Palmira sia stata del tutto conquistata dai mercenari cosiddetti “islamici”, o se l’esercito siriano mantiene, almeno in parte il controllo della città.
Dalle notizie che arrivano, sembra che alcune colonne antiche siano già state distrutte dall’Isis.
Intanto, però, l’esercito siriano ha provveduto a traslocare molte statue e materiali importanti del sito archeologico in zone sicure.

Dunque, gli stessi soggetti che l’Occidente (USA ed Europa) negli anni scorsi ha chiamato “combattenti per la libertà”, ed ha finanziato e armato (assieme agli alleati dell’Occidente, Arabia Saudita e Turchia), per tentare di rovesciare il regime siriano, colpevole di non assecondare gli interessi degli USA e di Israele.
Gli stessi soggetti -dicevo- ora, dopo aver fatto parlare di sé decapitando prigionieri a più non posso, ora sembra vogliano distruggere interi siti archeologici, come Palmira. Noncuranti nemmeno del fatto che sia stata –ricordiamolo- dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

Sia chiara una cosa: se i miliziani dell’Isis dovessero distruggere tale patrimonio, la RESPONSABILITA’ PRINCIPALE RICADREBBE SUGLI STATI UNITI, SU ISRAELE E SUI PAESI EUROPEI, oltre che sull’Arabia Saudita e sulla Turchia (comunque alleati dei primi).

L’Isis è a tutti gli effetti una creatura della CIA.
Ma non solo: gli Stati Uniti potrebbero benissimo liquidare l’Isis in breve tempo (non hanno nemmeno carri armati, girano con le Toyota). E avrebbero potuto farlo nei mesi scorsi, senza grossi problemi. Ma non lo stanno facendo.
Evidentemente nei loro calcoli geopolitici, la perdita di importantissimi siti archeologici (oltre che di milioni di persone) sono prezzi da pagare pur di mantenere il controllo su una zona strategica come il Medio Oriente.

martedì 12 maggio 2015

quando il potere si finge "popolare" (ma non lo è)

Nel lungo corso della storia le classi dominanti e il potere politico (le due cose non sempre coincidono) hanno sempre cercato di distinguersi dalla gente comune, dal popolo.
L’hanno fatto con le loro residenze, con le loro tombe, nel loro modo di vestirsi, di mangiare, di parlare, nelle loro abitudini, ecc.
E così abbiamo le piramidi faraoniche, i palazzi imperiali, i castelli, le regge alla Versailles, le sontuose ville, il lusso, lo sfarzo, ecc.
Pure il potere religioso non è stato esente da questo comportamento, costruendo grandi templi, moschee, basiliche e cattedrali, le quali avevano un’importante funzione in termini di psicologia politica: quella di far sentire la gente comune “piccola”, umile e debole nei confronti di Dio, e –più concretamente- nei confronti delle gerarchie clericali.
Addirittura si è arrivati a dire che l’aristocrazia avesse “sangue blu”, come a dire che i nobili erano diversi dal popolo anche fisiologicamente.

Questa tendenza a distinguersi dal popolo è iniziata gradualmente ad entrare in crisi tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900.
La lotta di classe, sempre più forte ed organizzata, la nascita delle democrazie di massa e lo sviluppo dei partiti socialisti, popolari e comunisti ha, a poco a poco, convinto il potere a mutare atteggiamento. O almeno alcuni settori del potere, quelli più esposti apertamente all’opinione pubblica.

Oggi la tendenza dei leaders è quella di apparire sempre più come persone “del popolo”.
L’Italia vanta ormai una certa tradizione in questo campo, avendo espresso un pioniere di tale tendenza, ossia Benito Mussolini.
Il “duce”, nelle sue uscite pubbliche, si sforzava di presentarsi in modo molto differente dal classico borghese intellettuale e “perbene”, ostentando un’immagine infarcita di atteggiamenti un po’ militareschi e un po’ popolari rozzi, fino ad arrivare al noto “me ne frego!” (poi, certo, aveva scelto come sua residenza l’aristocraticissima Villa Torlonia…quando si dice la coerenza!).

Per rimanere in Italia, lo “scimmiottamento” di atteggiamenti “popolari” è riesploso –non a caso- dopo il famoso ’89, con l’avvento della Seconda Repubblica.
Invano si cercherebbero espedienti simili in quei grandi dirigenti politici –Berlinguer, Pertini, Togliatti, Longo, Nenni (ma anche De Gasperi, Moro, Andreotti), ecc.- i quali rappresentavano veramente i lavoratori e i ceti popolari. Ma questi erano a capo di partiti radicati nel popolo e non avevano bisogno di scimmiottarlo.

Tornando alla II Repubblica, l’esempio più significativo tra i leaders politici che imitano comportamenti “popolari” è stato sicuramente quello di Silvio Berlusconi. Le sue quotidiane battute, i gesti (anche volgari), perfino le sue gaffes, facevano parte di una tecnica comunicativa ben studiata, tale da farlo apparire come un uomo “del popolo”, e quindi una persona spontanea e distante dalla “casta” dei politici di professione (considerati tout-court “falsi”). E quindi un uomo concreto e vicino agli interessi del popolo.

Un altro maestro nel campo è stato Umberto Bossi, su cui è inutile spenderci troppe parole. Stesso discorso per un comico come Beppe Grillo, tra l’altro coadiuvato –non a caso- da un grande imprenditore della comunicazione come Casaleggio.

All’estero, o quantomeno nei paesi europei, tale tendenza sembra essere assai più ridotta.
Un po’ più marcata, invece –ma non ai livelli italiani- la troviamo negli Stati Uniti. Anche negli States esiste una certa retorica a proposito dei presidenti “popolari” e infatti abbiamo avuto diversi presidenti che non provenivano dal ceto politico tradizionale (tipo Carter, che coltivava arachidi, o Reagan, attore).

Chi invece ha imparato bene la “lezione” (forse perché la sua sede è pur sempre in Italia) è la Chiesa Cattolica.
Il primo protagonista di tale tendenza è stato sicuramente Papa Wojtyla. I mass-media ce l’hanno sempre presentato come un ex operaio e come una persona molto “umana”.
A partire dal gesto –sicuramente studiato- di baciare in terra nei luoghi che egli visitava. Poi, Wojtyla lo si è visto scendere in una miniera con tanto di elmetto e fare numerosi gesti “da gente comune”, tipo andare a sciare e tant’altro.
Tutto ciò serviva a divulgare l’immagine di una persona “del popolo” e umile.

Papa Ratzinger si prestava poco a tale meccanismo (chissà se è stato sostituito anche per questo motivo).
Viceversa, Papa Bergoglio sembra proprio tagliato a tale scopo, con il suo viso da “buonaccione”.
E alcune “rinunce” (puramente esteriori) hanno fatto il resto: oggi egli appare essere una persona buona e che incarna lo spirito di una chiesa, che vorrebbe cambiare e diventare più umile.

In realtà la Chiesa Cattolica continua ad essere un impero economico di dimensioni molto più che “faraoniche”. Basti pensare che, solo in Italia, detiene a vario titolo almeno un quarto di tutte le proprietà immobiliari del paese e possiede hotels, negozi, ospedali, scuole, ristoranti e tantissimo altro, per un giro d’affari semplicemente colossale. Tutto (o quasi) esentasse. Alla faccia dell’umiltà!

Comunque sia, al di là di tutto, il fatto che il potere di oggi tenda a “mascherarsi” e ad apparire più popolare e meno aristocratico e faraonico, è, in sé, un fatto positivo, poiché testimonia del fatto che i ceti popolari hanno acquisito maggiore importanza e considerazione nell’ultimo secolo e mezzo.

Ma non basta: affinché i ceti proletari imparino a non farsi ingannare dal potere “mascherato”, occorre che facciano –in sintesi- due cose: lottare e istruirsi.
Sono l’ignoranza e la passività gli elementi che impediscono a questi settori della società di prendere coscienza della realtà e che permettono di farsi ingannare da chi fa finta di essere uno di loro (di solito per sfruttarli meglio).

lunedì 27 aprile 2015

immigrazione clandestina: una soluzione ci sarebbe, ma...

Durante il mio recente viaggio in Egitto sono rimasto colpito da due cose.
La prima me l’aspettavo, ed è la povertà di gran parte della popolazione locale, la quale si percepisce molto chiaramente girando per il paese e in diversi quartieri del Cairo.
La seconda cosa è stata quella di vedere nell’albergo dove soggiornavamo al Cairo una quindicina, circa, di ragazzi molto giovani e gravemente feriti. Uno aveva una gamba amputata, altri due erano in carrozzina e gli altri con le stampelle e braccia o gambe ingessate. Ragazzi!!
Alla reception mi hanno spiegato che sono ragazzi libici, vittime della guerra, e ospitati lì per un soggiorno di recupero, grazie –se ho capito bene- all’ambasciata egiziana in Libia.

Certo, entrambe le cose che ho visto coi miei occhi, povertà e ragazzi feriti, sono forse l’anticamera dell’anticamera dei problemi che ci sono in Africa.
E che spiegano ampiamente –per chi lo vuole capire- come mai ci sono centinaia di migliaia di africani che vogliono scappare via dalla loro terra, sacrificando i risparmi di una vita per pagare la traversata sui barconi, rischiando la vita, per poi ritrovarsi –se sono fortunati- dall’altra parte del Mediterraneo, in un paese sconosciuto, dove popolazione e istituzioni sono tendenzialmente ostili nei loro confronti (checché ne dica una certa squallida campagna mediatico-propagandistica di destra, la quale favoleggia su improbabili privilegi di cui gli immigrati godrebbero, a scapito degli italiani).

La maggioranza degli italiani reagisce con fastidio di fronte a questa che viene percepita come una vera e propria invasione di extracomunitari, anche perché ha totalmente perso coscienza di che cosa significhino la guerra e la miseria (ma ho come la sensazione che non tarderanno a riscoprirlo).
Non è questione di “buonismo” o non “buonismo”: nemmeno i governi di centro-destra che ci sono stati recentemente in Italia, con tanto di legge sull’immigrazione Bossi-Fini (che -lo ricordiamo- ha introdotto il reato di clandestinità) sono riusciti minimamente ad arginare il fenomeno.

Evidentemente serve un altro approccio.
Intanto è importante osservare che l’intervento militare della NATO (Italia compresa) contro la Libia di Gheddafi nel 2011 -dettato da “appetiti” petroliferi- ha prodotto, nel tempo, un aumento esponenziale degli sbarchi di clandestini, dato che ha distrutto uno Stato solido, con una buona economia e una situazione politica tranquilla. Oggi la Libia è un coacervo di gruppi estremisti e terroristi che si sparano addosso, strade e ospedali sono distrutti e l’economia è nel più totale collasso.
La Libia di Gheddafi era un potente argine contro l’immigrazione tramite barconi. NOI l’abbiamo distrutta.

Ma i problemi dell’Africa sono molto più profondi.
Il Continente Nero è in realtà pieno di risorse e potrebbe essere ricchissimo. Purtroppo nei secoli scorsi (e ancora oggi) è stato letteralmente saccheggiato dal colonialismo euro-americano.
Prima tramite il colonialismo direttamente politico, poi –dal dopoguerra- attraverso una nuova forma di colonialismo indiretto, per cui gli Stati africani rimangono –in teoria- indipendenti, ma in realtà vengono governati da dittatori locali, che però sono quasi sempre dei fantocci, controllati dai paesi ricchi europei e sempre più dagli americani.

Questi paesi subiscono uno sfruttamento economico e una depredazione delle loro risorse, che forse nemmeno durante il “vecchio” colonialismo politico esisteva.
Inoltre l’Occidente favorisce spesso conflitti “locali”, appoggiando l’una o l’altra fazione, a seconda della convenienza, e alimentando tensioni e conflitti, appunto, per controllare le zone economicamente fruttuose, tipo il petrolio, o le miniere –di cui l’Africa è ricchissima- ecc.
Tutto ciò impedisce ai paesi africani di sviluppare una propria economia, e quindi un certo benessere, in grado di bloccare miseria, sottosviluppo e conflitti vari.

 

La soluzione a tali problemi esiste, e consiste nel cambiare completamente approccio nelle politiche verso i paesi africani, prendendo esempio da ciò che sta sempre più facendo la Cina.
La Cina negli ultimi anni ha enormemente incrementato la sua presenza commerciale (e non solo) in Africa. Da cui ricava risorse preziose e fondamentali.
Ma, a differenza dei paesi euro-americani, pratica una ragione di scambio molto più equa, pagando agli africani un prezzo decente e non una miseria, come invece fanno i “nostri”.
Inoltre, investe pure sulle infrastrutture di quei paesi (strade, ospedali, scuole, ferrovie, ecc.), arrivando ad inviare i suoi ingegneri per realizzare tali opere.
Ciò permetterà –se non ci saranno intoppi- a molti di questi paesi di realizzare in futuro uno sviluppo oggi impensabile.

Questo è ciò che dovrebbero fare anche i nostri paesi, invece di gridare “al lupo” per dei poveri disperati, che arrivano da noi in cerca di sopravvivenza.

Ma il governo cinese lo può fare, perché ha una sua autonomia dai potentati economici. Mentre i nostri paesi (pseudo) “democratici” sono fortemente egemonizzati e controllati da parte del capitale finanziario e dalle multinazionali. E questi ultimi ragionano solo ed esclusivamente in termini di profitti immediati o di breve termine e sono privi di lungimiranza.
E quindi teniamoci l’immigrazione selvaggia, con tutte le sue conseguenze.
Invocare minor tolleranza e più repressione non servirà assolutamente a niente (se non a dare qualche voto in più alla Lega di Salvini)!