sabato 28 luglio 2012

Siria, una rivolta...decisa a Washington

In Siria è guerra. Ma che guerra è?
La campagna mass-mediatica di (dis) informazione che da mesi ormai dilaga sugli avvenimenti del luogo opera una sistematica distorsione delle notizie che ci giungono.
Le "notizie" che ci vengono quotidianamente riportate non partono da nessuna fonte un minimo ufficiale. Ossia, non soltanto non provengono da fonti governative -e questo potrebbe anche essere in teoria comprensibile- ma nemmeno da forze politiche di opposizione o dei vari gruppi religiosi conosciuti. Le fonti sono quelle di generici "ribelli" o del misterioso "Esercito Libero Siriano".

Chi sono questi ribelli?
Tutto lascia pensare che si tratti di mercenari professionisti -spesso estremisti islamici- provenienti da paesi quali l'Afghanistan, la Libia, il Qatar, l'Arabia Saudita e altri ancora.

Su queste basi, la nostra "informazione" ci fa credere che in Siria sia in corso una rivoluzione (magari anche sull'onda della primavera araba) contro il regime di Assad, dipinto come particolarmente antidemocratico e oppressivo.
NON intendo qui difendere il governo siriano, che ha certo i suoi grossi limiti. Ma se consideriamo la situazione complessiva del Medio Oriente di sicuro tale regime non figura tra i peggiori. Molto più repressivi, oltre che assolutisti e oscurantisti sono l'Arabia Saudita, il Qatar e i vari emirati.
Solo che di questi ultimi non si parla perchè hanno buoni rapporti con gli Stati Uniti e quindi nessun governo occidentale (nè i relativi mass-media) sente il dovere di "esportarvi la democrazia".
Viceversa, la Siria, che pure è rimasta uno dei pochi Stati laici del Medio Oriente e dove convivono pacificamente confessioni religiose molto diverse tra loro, ha però il "torto" di non piegarsi al dominio di USA e Israele.
Da qui nasce la rivolta armata, chiaramente finanziata, appoggiata da diversi Stati limitrofi e -in ultima analisi- decisa a Washington.

Chiunque ha una certa infarinatura di politica del Medio Oriente e la segua da qualche anno sa che la Siria in questi ultimi 10 anni almeno ha sempre rappresentato un ostacolo per le mire yankee (e sioniste). Era chiaro che lì DOVEVA prima o poi succedere qualcosa. La Siria è troppo anti-USA perchè potesse rimanere un paese tranquillo, come lo è stato fino ad un anno fa.

Bene hanno fatto Cina e Russia a votare contro la risoluzione ONU.
Intanto perchè la risoluzione 1973 sulla Libia dello scorso anno (in quell'occasione s'erano astenute) è stata pesantemente violata dall'intervento della NATO, che invece di limitarsi a far rispettare la "no fly zone" -come prevedeva la risoluzione- ha bombardato le città e l'esercito libici, permettendo ai "ribelli" (anche in questo caso rimane tutto da chiarire chi fossero tali ribelli) di vincere la guerra. E, preso il controllo sul petrolio, di escludere i cinesi dagli affari con l'oro nero (il che la dice lunga sulle reali motivazioni che stavano dietro l'intervento della NATO).

La nuova strategia degli USA e dell'Occidente adesso non è più quella di "esportare la democrazia" invadendo direttamente i paesi (visti tra l'altro i brillantissimi successi in Iraq ed in Afghanistan). Ora si esportano le rivolte.
Ossia, si addestrano decine di migliaia di terroristi e mercenari di vari paesi (in questo caso arabi) i quali provocano incidenti, fanno attentati, seminano il terrore e costringono il governo vittima di questi attacchi ad intervenire in modo repressivo.
Con la complicità dei mass-media parte una massiccia campagna di disinformazione, che condiziona l'opinione pubblica, predisponendola a favore di un intervento "umanitario". Intervento che poi viene eseguito naturalmente dagli USA o dalla NATO (o da qualche paese o leader fantoccio, tipo Sarkozy).
Il risoltato finale, se la cosa ha successo, è la creazione di un governo malleabile agli interessi statunitensi innanzitutto e soprattutto delle relative multinazionali.

Per le popolazioni locali le condizioni di vita al 90% peggioreranno. Ma questo i nostri efficientissimi mass-media tanto non ce lo diranno.
Ci dicono nulla su come il popolo libico sia ora finalmente "felice", dopo la caduta di Gheddafi?

lunedì 23 luglio 2012

Ma perchè lo Stato Italiano scende a patti con la mafia?

In queste ultime settimane sono riemerse le voci circa il patto tra Stato e mafia che ci sarebbe stato nei primi anni '90, in seguito agli attentati terroristici e poi all'assassinio di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sono in molti a ritenerlo, a cominciare dal Presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta, ad Antonio Ingroia, Procuratore.
Traggo spunto da queste ultime vicende per porre una domanda. Una domanda che è tanto semplice a farsi quanto estremamente difficile a rispondersi: per quale motivo l'Italia è l'unico paese -quantomeno in Europa- ad ospitare al suo interno delle organizzazioni di tipo mafioso?
Ossia, parliamo di strutture criminali, con un fortissimo radicamento nel tessuto sociale d'origine (e non solo d'origine) e una discreta presenza nelle istituzioni, come lo sono Cosa Nostra, la Camorra, la Ndrangheta e la Sacra Corona Unita.
Qui non abbiamo a che fare con semplici bande criminali, come ne esistono in molti paesi, composte da qualche decina -o massimo poche centinaia- di persone, prive di un sostegno sociale diffuso e con scarsa o nessuna copertura istituzionale.

Sono state date diverse interpretazioni del fenomeno. Naturalmente è impossibile in quest'articolo esaminarle anche solo sinteticamente. Mi limiterò a fare qualche osservazione.
La nascita e lo sviluppo di tali organizzazioni è da mettere in relazione, almeno in una prima fase, con lo stato di semi-colonia -non dichiarata, ma di fatto- nella quale s'è venuta a trovare l'Italia Meridionale (Roma e Lazio compresi) dopo l'Unità d'Italia. La classe dirigente politica sabauda e la forte borghesia industriale-commerciale del Nord scelsero di sviluppare in pratica solo le regioni settentrionali, lasciando il Mezzogiorno nell'arretratezza.
La classe dirigente meridionale, un po' per limiti intrinseci e un po' per subordinazione a quella del Nord ha prodotto una serie di contraddizioni economico-politico-sociali, all'interno delle quali si sono sapute ben inserire le organizzazioni mafiose.

Nel secondo Dopoguerra Cosa Nostra si è rafforzata ed espansa, grazie anche al rapporto ambiguo che gli Stati Uniti hanno mantenuto con essa (basti pensare al ruolo decisivo svolto da Lucky Luciano nello sbarco alleato in Sicilia).
Inoltre, gli USA hanno utilizzato il Piano Marshall (ERP) per distribuire provvidenziali risorse alle forze politiche di centro (DC in primis), da gestire in modo clientelare e corrotto, in funzione anti-comunista. E anche qui le varie mafie si sono sapute ben inserire.
Ma le organizzazioni mafiose hanno avuto addirittura "una marcia in più". Al contrario della classe dirigente meridionale "legale", con un'ottica meramente gestionale, conservatrice, sonnolenta e tesa a vivacchiare, i mafiosi si sono dimostrati -a modo loro, purtroppo- molto più spregiudicati, veloci e capaci non soltanto nel controllo del territorio, ma anche nel fiutare nuove attività redditizie, come, ad esempio, il narcotraffico o la gestione dei rifiuti (negli ultimi anni spesso al centro della cronaca, soprattutto in Campania).

Il vasto e diffuso consenso sociale di cui godono spesso le organizzazioni mafiose nel loro territorio d'origine non può essere spiegato certo soltanto con l'omertà. Ci piaccia o non ci piaccia, le mafie fanno girare l'economia di molte zone e creano lavoro, laddove l'unica alternativa è spesso soltanto l'emigrazione.
Dico questo non certo per giustificare Cosa Nostra, Ndrangheta, Camorra e SCU, bensì -al contrario- per denunciare le profonde carenze e limiti della classe dirigente economica -prima che politica- italiana. E non tanto di quella meridionale, quanto di quella del Nord, che in questi 150 anni ha molto speculato sull'arretratezza del Mezzogiorno.

E veniamo finalmente al rapporto Stato-mafia.
Tommaso Buscetta, pentito di mafia considerato tra i più attendibili, ha più volte affermato che Cosa Nostra è tutt'altro che imbattibile e che se lo Stato italiano si fosse deciso a contrastarla con energia e fermezza, l'avrebbe sconfitta.
Il problema è che non l'ha voluto.
Ossia, se si eccettuano singoli personaggi eroici, non c'è stata complessivamente da parte delle istituzioni una seria politica di lotta alla mafia (anzi, alle mafie).

E il problema non riguarda solo lo stato italiano. Oltre ai già citati USA, a trafficare, almeno finanziariamente, con Cosa Nostra abbiamo avuto anche lo IOR di Marcinkus. Ossia, il Vaticano. E restano tutti da chiarire i rapporti tra l'Opus Dei e il boss della Banda della Magliana, De Pedis (in contatto con Cosa Nostra attraverso Pippo Calò).

In questo contesto non c'è dunque da meravigliarsi di fronte alla notizia emersa recentemente del patto tra Stato e mafia. C'è invece da preoccuparsi quando lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgo Napolitano non trova di meglio che inveire contro i magistrati, che indagano su ciò, esaminando le intercettazioni del Quirinale.
E quando un procuratore come Antonio Ingroia è costretto a lasciare l'Italia.

domenica 15 luglio 2012

Come mai l'Argentina ha risolto la crisi e la sua economia è in ripresa?

La risposta si potrebbe facilmente sintetizzare con una battuta: perchè ha fatto l'esatto opposto di ciò che si sta facendo da noi, in Europa.
Ma approfondiamo la questione.
L'Argentina non è mai stato un paese povero. Anzi, all'interno dell'America Latina la sua economia si difendeva abbastanza bene.
Le cose hanno iniziato a cambiare a partire dalla dittatura degli anni 1976-83.
Ma il grosso peggioramento lo abbiamo avuto negli anni '90, sotto la presidenza di Carlos Menem.
Egli attuò una serie di politiche ispirate all'ideologia liberista: privatizzazioni, tagli ai salari, ai servizi sociali.
Il risultato fu un peggioramento dell'economia, una perdita di competitività con l'estero, aggravata da una politica di parità Peso-Dollaro (che tanto ricorda l'Euro). E ancora, aumento vertiginoso della disoccupazione, della povertà e delle diseguaglianze sociali. Nonchè indebitamento.

Per far fronte al quale, l'Argentina ricorse al FMI (Fondo Monetario Internazionale). Il quale impose al paese politiche liberiste ancora più radicali. La conseguenza è che la crisi si aggravò ancora di più (qualcuno ricorda i "bond argentini"?) ed esplosero forti tensioni sociali.
Non solo i ceti popolari caddero in miseria, ma l'indigenza raggiunse perfino settori di piccola-media borghesia.

Ma alla fine, dopo le rivolte del 2001-02, e sulla spinta di queste, arrivò alla presidenza Nestor Kirchner.
Il quale ha mutato profondamente le politiche economiche del paese sudamericano.
Ha nazionalizzato diverse industrie, s'è sganciato dalla parità col Dollaro e dal FMI, ha incrementato le spese sociali e creato nuovi posti di lavoro.
L'Argentina ha incominciato a dipendere sempre meno dalle importazioni e soprattutto ha fortemente ridimensionato le pretese egemoniche degli Stati Uniti, facendo fallire la costituzione dell'ALCA (trattato di "libero commercio" americano, in cui gli USA, su posizioni di forza, l'avrebbero fatta da padroni).
S'è, viceversa, appoggiata al Mercosur (mercato comune del Sudamerica), che però è un organismo molto più egualitario di tanti altri, compreso l'Unione Europea, e non prevede le rigidità di questo.
Il riusultato è che oggi l'Argentina è in piena ripresa economica.



E in Europa?
I paesi dell'Unione Europea perseguono sostanzialmente politiche molto simili a quelle praticate in Argentina negli anni '90 (e in tanti altri paesi, sempre con risultati simili).
In Grecia prima e poi in Irlanda, nel Portogallo, in Spagna e naturalmente anche in Italia abbiamo tagli alle pensioni, alle scuole pubbliche (ma non a quelle private), alla Sanità, licenziamenti in massa, privatizzazioni, deindistrializzazione, aumento delle tasse concentrato tutto sui ceti medio-bassi (di patrimoniale neanche a parlarne).

Insomma, una politica che, con la scusa del debito pubblico, non soltanto cancella i diritti dei lavoratori e il futuro di milioni di giovani e meno giovani, ma alla fine non risolve minimamente il problema per cui tali manovre erano state in teoria partorite.
Il debito pubblico rimane altissimo e il rapporto tra questo e il PIL non si abbassa (e difficilmente lo farà in futuro). Anche perchè le politiche del Governo Monti sono fortemente recessive e dunque non potranno che abbassare il PIL.
Tale denuncia proviene, tra l'altro, da una fonte non sospetta: Giorgio Squinzi, neopresidente di Confindustria, il quale sostiene che il calo del PIL nel 2012 potrebbe arrivare a -2,4% e ha dichiarato che la "spending review" è una manovra recessiva.
Ha poi subito un vero e proprio linciaggio morale per aver osato dire una cosa, che è fin troppo palese, ma che evidentemente non si può dire "...altrimenti fa aumentare lo spread".
Il quale spread, però, è aumentato lo stesso, anche dopo che Squinzi è stato costretto a chiedere scusa per la sua affermazione.

Io mi auguro che non dovremo arrivare alla situazione di miseria che si era arrivati in Argentina nei primi anni '2000, perchè ci si renda conto che bisogna cambiare radicalmente le politiche economiche. Ma, certo, Berlusconi prima, e ancora di più Monti ora, stanno dando una decisa accelerata in tale direzione.

domenica 1 luglio 2012

Riforma Fornero, il lavoro non è più un diritto

Dai e dai, alla fine anche l'articolo 18 è stato -di fatto- cancellato.
La riforma del Ministro del Lavoro Elsa Fornero è passata in Parlamento e ha abbattuto una delle poche tutele che i lavoratori ancora mantenevano.
Non va dimenticato -per comprendere appieno il significato di ciò che sta accadendo- che in passato ci sono voluti decenni e decenni di lotte, anche durissime, per riuscire ad ottenere certi diritti, tra i quali quello di non essere licenziati senza una giusta causa. Ora questo diritto è perduto.

Uno dei paradossi della faccenda è che in Italia la libertà di licenziamento, anche senza giusta causa, già esisteva. Qualunque persona che lavora senza un contratto a tempo indeterminato è licenziabile come e quando il padrone vuole. Basta semplicemente non rinnovare il contratto o la collaborazione.
E, a dire il vero, persino i lavoratori con contratto a tempo indeterminato sono stati spesso licenziati, soprattutto negli ultimi anni. Cìò capita, frequentemente, se l'azienda è in crisi economica.
E l'elevato numero di esodati (ultracinquantenni espulsi dal lavoro e che non possono andare in pensione, dato l'innalzamento dell'età pensionabile) lo dimostra.

Grazie a questa riforma le aziende private come gli enti pubblici potranno licenziare più facilmente e si allarga ulteriormente l'utilizzo del precariato, con la generalizzazione del contratto di apprendistato, che non prevede l'obbligo dell'assunzione.
E, come se ciò non bastasse, c'è un ulteriore taglio agli ammortizzatori sociali.

Il vero obbiettivo di tali misure è quello di poter esercitare un maggior ricatto nei confronti del lavoratore.
E' noto che chi corre il rischio di perdere il posto di lavoro tende a partecipare meno a qualsiasi iniziativa di lotta e sindacale.
Contrariamente a quanto molti pensano, ciò non porterà ad un miglioramento delle prestazioni lavorative. L'esperienza insegna che i lavoratori precari non lavorano meglio di quelli tutelati, anzi, proprio il contrario. Il precario, soprattutto se sa di non avere prospettive di una futura stabilizzazione, è molto demotivato nel lavoro.



Secondo ciò che viene detto, la riforma Fornero dovrebbe servire a rilanciare la produzione e di conseguenza l'occupazione. Ho perso il conto di quante misure nel passato -a cominciare dall'abolizione della scala mobile- dovevano in teoria servire a tale scopo. E poi invece non sono servite a niente (se non ad arricchire le banche).

Ma se vogliamo farci un'idea un po' più concreta di quanto possa essere efficace tale riforma, ci basta andare a vedere le numerosissime aziende medio-piccole, dove la maggior parte dei lavoratori -se non tutti- opera in condizioni di facile licenziabilità: stanno chiudendo a decine di migliaia.
E quelle che non chiudono, si barcamenano.

La Riforma Fornero serve solamente per permettere agli imprenditori di poter fare ciò che in tempi di crisi (come questi) tendono istintivamente a fare. Ossia, a licenziare.
Tale politica miope porta inevitabilmente ad un ulteriore aggravamento della crisi, a meno che non intervengano altre circostanze -ma francamente non ne vedo- e quindi ad ulteriori tagli e licenziamenti.

Non un marxista, bensì un economista borghese (ma illuminato) tale John Maynard Keynes descrisse abbondantemente tale meccanismo. E disse che per ovviare a ciò, lo Stato -il tanto decantato privato, infatti, non lo farà mai- doveva intervenire, aumentando le spese e creando posti di lavoro, anche inutili ("scavare buche per poi riempirle"). Così facendo rimetteva in moto i consumi e quindi l'economia. Cioè, l'esatto opposto di ciò che si sta facendo oggi, non solo in Italia, ma in tutta Europa (e ovviamente negli USA).
L'ideologia liberista -oggi dominante in tutto l'Occidente- lascia il cosidetto "libero mercato" (traduz.: mercato finanziario, spesso del tutto estraneo alla realtà economico-produttiva) ai suoi "istinti".
E quindi, licenziamenti a volontà e facilissimi.

Benvenuta, crisi, la strada per te è spalancata!