giovedì 29 maggio 2014

alcune considerazioni sui risultati delle elezioni

Forse la sto prendendo un po’ troppo “larga”, ma parlare di Europa senza prima inquadrare il continente all’interno delle recenti dinamiche mondiali è limitante.
La tendenza mondiale –molto sinteticamente- è la seguente: negli ultimi anni stanno sempre più emergendo i paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a livello economico, ma sempre più anche politico.
Gli Stati Uniti si trovano in grave difficoltà di fronte a tale ascesa e tentano quantomeno di legare a sé il più possibile i paesi europei, staccandoli soprattutto dalle relazioni con la Russia. Contro la quale gli USA stanno praticando una politica decisamente aggressiva, anche se in modo (neanche tanto) indiretto (vedi Libia, Siria e soprattutto Ucraina). Agli americani conviene, agli europei decisamente meno, dato che un deterioramento serio dei rapporti con la Russia, avrebbe ripercussioni economiche gravi per i paesi dell’UE (Italia compresa), già alle prese con una pesante crisi economica.

L’Europa, infatti, si trova, per la prima volta da secoli, in una fase di declino economico, politico, culturale e morale.
La crisi economica è da attribuire al meccanismo di funzionamento del capitalismo (vedi Marx). Il problema è che le scelte dell’Unione Europea –e in modo particolare dei paesi che hanno aderito all’euro- sono le peggiori che possano essere fatte in un contesto di crisi: riduzione del debito pubblico, attraverso pesanti tagli al salario, alle pensioni, alla sanità, ecc. (che naturalmente vanno ad incidere soprattutto, se non esclusivamente, sui lavoratori e sui ceti popolari). Così la crisi si alimenta e si aggrava come un circolo vizioso.
L’unico paese che ne sta uscendo economicamente bene è la Germania, e proprio grazie all’euro e alle politiche di cui sopra (fiscal compact). In pratica, sta facendo pagare la sua floridità ai paesi deboli (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda, ecc.).

Detto ciò, il comportamento elettorale degli europei riflette nel complesso tale stato di crisi e di decadenza. Comportamento che si esprime in modi diversi e contraddittori: dalla sfiducia (astensionismo, che a livello europeo non è aumentato, ma rimane elevatissimo), alla contrarietà, o quantomeno allo scetticismo nei confronti dell’Europa, da intendersi non come rifiuto dell’Europa unita in sé, quanto come rigetto delle politiche economiche dominanti nel continente.
Il dissenso (o euroscetticismo) è in netta crescita dappertutto.
Curiosamente l’unico paese dove le forze centriste e filo-UE tengono è, guarda caso, la Germania, ossia, l’unico paese che dall’introduzione della moneta comune ci ha guadagnato. Ma persino lì l’euroscetticismo è in leggera crescita (sull’Italia ritornerò più avanti).
Per il resto avanzano in modo notevole i partiti in diversi modi critici verso l’UE e verso l’euro.

Il cosiddetto “euroscetticismo” (termine ovviamente riduttivo) presenta –semplificando- due facce: quella di destra, che magari parte da un atteggiamento critico anche legittimo, ma che sfocia sostanzialmente ad una reazione di tipo nazional-egoista (stile: pensiamo a salvarci noi, degli altri poco ci importa). Il successo di questa opzione è particolarmente netto in Francia, in Gran Bretagna, in Austria e anche altrove.
E poi c’è la crescita delle forze di sinistra (cosiddetta “radicale”; ossia, quella che difende i ceti popolari e non il capitale finanziario). Crescita molto consistente in Grecia (dove Syriza è addirittura il primo partito), in Portogallo, in Spagna e in Irlanda –i paesi più colpiti dalle misure di austerità imposte dall’Europa- ma anche nell’insospettabile Belgio, nella Repubblica Ceca e altrove.
Infatti il GUE/NGL passa da 35 a 49 deputati.

 

E veniamo all’Italia. Chi ha vinto?
Sicuramente l’astensionismo. Ossia, la sfiducia, la rassegnazione. Che implica, nella maggior parte dei casi, un’insoddisfazione di fondo.
Poi, contrariamente alle previsioni (anche mie), il M5S non ha sfondato. Ma il 20% rappresenta comunque un risultato notevole per una forza politica relativamente giovane (Beppe Grillo a parte) e che gestisce poco potere.
Non mi dilungo sui limiti di tale “movimento”, dato che ne ho già ampiamente trattato. Mi limito ad osservare che nella Parma di Pizzarotti il M5S ha ottenuto un risultato in linea con l’Emilia Romagna e con quello nazionale, segno che Pizzarotti non ha entusiasmato granché e che un conto è opporsi, urlare e criticare, un altro è governare.

Il 40% del PD di Renzi può essere considerato un risultato storico?
Direi proprio di no. In termini assoluti il PCI (e taccio sulla DC) riuscì ad ottenere nelle politiche del 1976 un milione e mezzo di votanti in più, laddove gli elettori erano 40 milioni, invece dei 49 milioni di oggi. Cioè, calcolando il consenso reale -ossia, sul totale degli elettori- quello del PCI del 1976 era del 31,2%, mentre quello del PD di Renzi è del 22,7%, quasi 10 punti in meno. A ciò andrebbe aggiunto il fatto che almeno ¾ di quei voti erano stabili, ossia il cosiddetto “zoccolo duro”. Quanti dei voti ottenuti dal PD di oggi si possono considerare tali?
Il fatto è che Renzi è arrivato da pochi mesi e difficilmente l’elettorato è in grado di dare un giudizio adeguato. Finora l’indubbio consenso dell’ex sindaco di Firenze è stato dovuto soprattutto ad aspetti esteriori e propagandistici (giovane, dinamico, apparentemente estraneo al vecchio apparato, senza contare la faccenda degli 80 euro).
Inoltre i voti del PCI di allora rappresentavano in toto un popolo progressista, mentre quelli del PD (che indubbiamente ha preso voti dal PdL e soprattutto da Scelta Civica) sono in gran parte voti conservatori.

La Lista Tsipras.
Personalmente, tenendo conto il contesto difficilissimo per la sinistra alternativa, sono soddisfatto del 4,03%.
Ho sentito non poche critiche “da sinistra” rispetto ai risultati di tale lista. Critiche nelle quali si sottolinea la perdita di quasi la metà dei voti in termini assoluti, rispetto al risultato della Federazione della Sinistra e di Sel del 2009 messe assieme.
Un tale paragone è, a mio avviso, improponibile e fuorviante. Primo, perché la FdS nel frattempo è stata distrutta, causando l’ennesima emorragia di voti, chiaramente visibile nei risultati di Rivoluzione Civile dello scorso anno. A ciò si aggiunge il fatto che il PdCI è rimasto sostanzialmente estraneo a tale lista. Secondo, perché la stessa Sel era divisa e tutto lascia pensare che una parte di essa abbia boicottato la Lista Tsipras.
Insomma, tenuto conto che numerosi comunisti e persone di sinistra hanno preferito non votarla, la Lista Tsipras ha ottenuto un risultato discreto e che in questa difficilissima fase rappresenta una boccata d’ossigeno.

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