domenica 5 novembre 2017

100 anni di Rivoluzione Sovietica. Successi, errori e prospettive future


La primissima cosa da fare, quando si vuole incominciare a parlare dell’Unione Sovietica in modo non propagandistico è quella di problematizzare l’immagine stereotipata che abbiamo di quella realtà storica.
Lo stereotipo è quello dell’URSS, vista come fosse stato un gigantesco “lager”, una dittatura rigida, con un tremendo controllo poliziesco, che avrebbero lasciato ben poca libertà al popolo sovietico.
Si tratta di una grossolana semplificazione (le cose erano un po’ più complesse). Ma è impressionante constatare quanto una visione talmente superficiale abbia potuto durare così tanti anni -e ancora duri- in Occidente (in Russia ovviamente il discorso cambia).

Detto ciò, non si vuole qui negare che lì ci siano state forme di repressione a volte esagerate o in certa misura arbitrarie (ma non è che l’Occidente “democratico” sia stato da meno; il discorso sarebbe lungo), bensì semplicemente far notare come una società complessa e variegata come quella dell’Unione Sovietica non può certo essere vista –come invece di solito si fa- solo sotto l’aspetto della repressione. Sarebbe come se, nell’immaginario collettivo, gli Stati Uniti fossero associati solo ed esclusivamente alle bombe atomiche sganciate sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki, le guerre in Vietnam o in Afghanistan e in Iraq, o le feroci dittature sudamericane (più o meno tutte targate USA).

Per poter dare una valutazione un minimo obiettiva sulle dinamiche relative alla costruzione dell’URSS (qui parliamo essenzialmente dei primi decenni) non si possono ignorare almeno 4 fattori, che sono stati assolutamente determinanti nello sviluppo del socialismo in quel paese.


Il primo fattore sta nella valenza pionieristica della costruzione del socialismo in quel paese.
Se togliamo la Comune di Parigi, che ebbe, però, vita effimera, durando due mesi soltanto, e che avvenne in una città a quel tempo molto avanzata, la Rivoluzione Sovietica è stato il primo tentativo storico di costruzione del socialismo in un paese. Già solo per questo motivo era inevitabile che si commettessero degli errori, anche notevoli.
Poi, a differenza di ciò che siamo abituati a pensare, il tipo di socialismo che s’è sviluppato nell’URSS non è stato il prodotto di un “modello” già elaborato, preconfezionato e poi imposto autoritariamente alla società. Viceversa, è stato il risultato di quello che si può definire un vero e proprio esperimento socio-economico-politico, effettuato peraltro in condizioni molto difficili.
I bolscevichi avevano ben presente che ciò che stavano tentando di realizzare era un tipo di società del tutto inedito e quindi non sfuggiva loro il carattere sperimentale e pionieristico della costruzione del socialismo sovietico.
Quindi, identificare il socialismo (o, peggio ancora, il “comunismo”) tout-court con la realtà sovietica non ha alcun senso ed è funzionale soltanto alla propaganda anticomunista, che da noi imperversa da decenni, per lo più camuffata da “informazione” o “documentario”.

Marx tra l’altro non ha mai descritto –né avrebbe potuto farlo- come sarebbe stata la società comunista, né come sarebbe stato il percorso che avrebbe portato ad essa (il socialismo, appunto, la fase di transizione verso il comunismo), limitandosi ad illustrarne i tratti essenziali, ossia, la progressiva socializzazione dei mezzi di produzione e la conseguente estinzione delle classi sociali.
Dunque, i sovietici hanno dovuto sperimentare delle politiche totalmente nuove, procedendo per tentativi ed errori.
In una fase successiva, però, i sovietici avrebbero poi commesso l’errore di considerarsi “Stato-modello”.

Il secondo fattore da tenere presente è quello della forte arretratezza del paese, ereditata dalla Russia zarista.
Ora, come è noto, Marx aveva previsto che il socialismo si sarebbe sviluppato a partire dai paesi capitalisticamente avanzati, mentre in Russia la produzione capitalistica –assai poco avanzata- era sostanzialmente limitata alla parte occidentale del paese. In molte regioni del paese, soprattutto periferiche, vigeva ancora la produzione e i rapporti sociali feudali: la popolazione locale era in gran parte analfabeta, arretrata economicamente, culturalmente, civilmente.
A questo vanno aggiunte le differenze etniche, linguistiche, religiose delle varie popolazioni -specialmente quelle asiatiche- che avevano fatto parte dell’Impero Zarista e che ora erano passate a far parte dell’Unione Sovietica.
Inutile sottolineare quanto tutto ciò abbia prodotto dei problemi immensi e degli ostacoli semi-insormontabili nella costruzione di un tipo di società, come quella socialista, avanzata pure per la stessa Europa Occidentale.

Il 3° fattore riguarda gli enormi danni, umani e materiali, causati dalla guerra civile del 1919-21 (per non parlare, poi, di quelli ancora peggiori dovuti all’invasione della Germania nazista durante la II Guerra Mondiale, con oltre 20 milioni di morti sovietici).
Per chi non lo sapesse, nella Russia rivoluzionaria, scoppiò nel ’19 una guerra civile, provocata dalle “Armate Bianche”, ossia, quelle fedeli alla vecchia aristocrazia zarista. Queste furono appoggiate, finanziate e armate da un po’ tutti i più importanti paesi occidentali “democratici” (Italia compresa), i quali, non contenti di ciò, intervennero anche direttamente inviando i loro eserciti. Ci vollero due anni affinché l’Armata Rossa riuscì a sconfiggere le armate nemiche e a riprendere il controllo della situazione. Ma i danni furono ingentissimi e si andarono ad assommare a quelli già prodotti dalla Prima Guerra Mondiale.
Tali eventi costrinsero il governo sovietico –allora ancora diretto da Lenin- a severe misure di emergenza (il “comunismo di guerra”) e il tutto ostacolò seriamente la costruzione del socialismo.

Il quarto fattore è costituito dalla mancata espansione della rivoluzione in Occidente e dal conseguente isolamento politico-economico della nascente URSS.
I bolscevichi, a partire dallo stesso Lenin, contavano sul fatto che la rivoluzione si sarebbe espansa nell’Europa Occidentale (e in modo particolare in Germania, la quale, essendo economicamente e tecnologicamente molto più progredita della Russia, avrebbe di certo favorito non poco lo sviluppo dell’economia socialista sovietica). Cosa che però non avvenne.
E sì che in quegli anni di fermenti rivoluzionari ce ne furono parecchi nel resto dell’Europa. In Ungheria si arrivò addirittura ad un governo sovietico locale, capeggiato da Bela Kun, ma durato pochi mesi, stroncato dalla repressione. In Germania ci furono tentativi insurrezionali, sconfitti con l’assassinio di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht. In Italia ci fu il Biennio Rosso. E poi altri fermenti ancora in diversi paesi.
Ma tutti questi movimenti fallirono e negli anni successivi la reazione trionfò un po’ dappertutto.
L’Unione Sovietica si ritrovò, così, isolata politicamente ed economicamente.
Anzi peggio: si ritrovò circondata da nemici giurati.


Costruire il socialismo in un contesto così difficile (e dire difficile è un eufemismo) era un’impresa veramente titanica, ai limiti dell’impossibile.
E infatti, la mia convinzione è che nell’URSS è stato fatto quello che si poteva.

Non entro qui nel giudizio sui singoli personaggi (Stalin, Trotsky, o altri) e ritengo, anzi, un grosso errore definirsi –nella realtà mondiale del 2017- “trotzkisti” o “stalinisti”, distinzioni nate in un contesto molto specifico e difficilmente ripetibile. Inoltre, questi personaggi, nel loro operato, sono stati pesantemente condizionati da un contesto, appunto, di enormi difficoltà e carico di rischi e insidie.
Ciò che mi sembra importante sottolineare, oltre le cose dette sopra, sono alcuni punti.

L’URSS viene, da noi, costantemente associata solo ed esclusivamente al discorso repressivo (peraltro ingigantito), “dimenticando” –e quindi, di fatto, negando- tutto quanto il resto.
E il resto è costituito dal progresso sociale, economico, scientifico e culturale senza precedenti che si è avuto in quel paese, sul quale si potrebbe parlare molto a lungo.
Va tenuto presente, infatti, che la Russia zarista era una società per molti versi ancora medievale. Il 70% della popolazione era analfabeta, milioni di russi non sapevano cosa fosse un medico. In molte zone vigevano ancora rapporti di servitù feudale e le carestie erano frequenti.
Se pensiamo, poi, che gli enormi sviluppi che ha avuto -in pochi decenni- l’URSS sono stati ottenuti senza poter sfruttare dei paesi coloniali (come hanno invece fatto gli europei) e avendo patito una guerra catastrofica, come quella subita ad opera della Germania nazista (oltre 20 milioni di morti), sono stati dei progressi veramente impressionanti.
Ma naturalmente quando si parla di URSS, da noi, tutto ciò viene colpevolmente taciuto.

Un altro punto riguarda i motivi del declino e, alla fine, del crollo dell’Unione Sovietica.
Come già fu per la Rivoluzione Francese –a suo tempo sconfitta, ma il cui impulso, i cui ideali, alla lunga, finirono per trionfare- anche la Rivoluzione Sovietica ha avuto una fine.
Sui motivi di questo declino si potrebbero scrivere trattati ed enciclopedie, ma mi limito –per motivi di spazio- a fare una brevissima e sommaria considerazione.
Il socialismo -tappa transitoria verso il comunismo, secondo Marx- non va considerato, come già detto, un “modello”, bensì un tipo nuovo di società che si costruisce a poco a poco, col tempo e attraverso sperimentazioni, errori e successive correzioni di questi, passando per tappe diverse.

Probabilmente l’errore principale dell’URSS è stato quello di aver voluto costruire un socialismo forse un po’ troppo avanzato per i tempi, e finendo per farlo attraverso la statalizzazione integrale (o quasi) dell’economia, che non era esattamente ciò che aveva teorizzato Marx. Il che, alla lunga, ha portato ad una tendenziale paralisi dell’iniziativa e dell’innovazione.
Contemporaneamente, i comunisti allora –non solo nell’URSS- avevano forse dato il capitalismo per morente troppo in fretta.
In effetti, il capitalismo della seconda metà del ‘900 ha mostrato di non aver ancora esaurito del tutto il suo carattere progressista, se teniamo presente gli enormi sviluppi tecnologico-scientifici che ha continuato a produrre in quel periodo (pensiamo soprattutto alla “rivoluzione informatica”).
Oggi, però, tali sviluppi sembrano decisamente arrivati ad un esaurimento.

Ma la cosa veramente importante è che il socialismo non è certo morto con la fine l’URSS.
La Cina, ad esempio, sta sperimentando un tipo di socialismo assai diverso da quello dell’Unione Sovietica, permettendo un certo sviluppo del capitalismo, anche se in forma limitata e controllata.
Fermo restando che io non “sposo” il “modello cinese” (anche perché loro stessi si guardano bene dal considerarsi un “modello”), la realtà del dragone mi sembra decisamente degna quantomeno di essere un po’ più conosciuta e studiata. I cinesi, i quali mantengono uno Stato governato da un partito comunista, sembra stiano facendo tesoro degli errori –ma anche delle conquiste- dell’URSS, tentando di realizzare un nuovo tipo di socialismo (“di mercato”) originale. Sperimentando una nuova via.
Con tutta la prudenza del caso, la mia impressione è che forse la principale eredità della Rivoluzione Sovietica sia oggi costituita proprio dalla Cina e dai suoi sviluppi. E non solo quelli interni, ma anche quelli inerenti al rapporto di questa con gli altri paesi.
Inoltre, vi sono, negli ultimi tempi, nuovi e originali tentativi di sviluppare delle società socialiste, specificamente in America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e Ecuador).


A cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre si può dire che –contro tutte le previsioni occidentali- il movimento comunista mondiale si stia faticosamente riprendendo da una seria e pesante sconfitta storica (quella dell’89-91) per iniziare a rilanciare una nuova sfida al capitalismo.

sabato 7 ottobre 2017

"rossobrunismo", Fusaro, anti-globalizzazione e dintorni


Negli ultimi anni si sta diffondendo –complici youtube, facebook e i vari social- una “nuova” corrente di pensiero politica (almeno nuova sotto alcuni aspetti), che in alcuni casi viene chiamata "rossobrunismo", anche se numerosi suoi sostenitori non si riconoscono in tale termine.
Tale corrente di pensiero è presente e sta diffondendosi sia a destra, che a sinistra e pure in ambienti politicamente di centro. Esercitando un certo fascino anche tra non pochi simpatizzanti del M5S. E, anzi, il più delle volte chi rientra in questa corrente considera superati gli stessi concetti politici di “destra” e “sinistra”.

Come molte correnti di pensiero, anche questa non ha limiti ben precisi e presenta, al suo interno, differenti interpretazioni e diversi accenti e sfumature. Uno dei rappresentanti più in vista di tale filone di pensiero è un “opinion maker” emerso recentemente alla ribalta, ossia Diego Fusaro.

La caratteristica principale di questa corrente di pensiero è quella di una forte critica alla cosiddetta “globalizzazione”, vista tout-court come un fenomeno assai negativo in più o meno tutti (o quasi) i suoi aspetti.
Ossia, da una parte vengono criticate le istituzioni del capitale finanziario (banche, Unione Europea, FMI, multinazionali, massonerie, ecc.). Dall’altra, però, anche il fenomeno immigratorio viene visto in modo altrettanto negativo, così come in genere le società multi-etniche.
Allo stesso modo vi è una forte critica rivolta –con varie sfumature- alle battaglie per i diritti dei LGBT (gay, lesbiche, bisessuali e transgender).

Come spesso accade, è impossibile qui rendere conto di tutte le interpretazioni, sfumature e sfaccettature di tale corrente di pensiero. Diciamo che si possono individuare –molto schematicamente- due filoni interpretativi, uno chiaramente di destra e l’altro più “di sinistra”.

Il filone di destra di tale pensiero prende di mira soprattutto il fenomeno immigratorio (assai più blanda, quando c’è, la critica al capitalismo) e la tendenza alla formazione di società multi-etniche.
Vi è, in questo caso, una differenza molto netta rispetto alla generica xenofobia, ossia l'ostilità o diffidenza verso gli immigrati più o meno spontanea. L’intero fenomeno migratorio viene visto, infatti, come un’operazione pianificata a tavolino da parte di qualche centro di potere occulto (massonico, ebraico, o altro) e finalizzato a sostituire, in prospettiva, le popolazioni europee -viste in qualche modo come “migliori”- con quelle africane o asiatiche, considerate più “deboli”. E qui scadiamo, in pratica, nel razzismo vero e proprio.
In alcune versioni si parla anche di un (presunto) progetto di islamizzazione delle popolazioni europee (probabilmente c’entra anche l’influenza di certi discorsi semi-deliranti della Fallaci, scritti in tarda età).

Sempre nella versione di destra, è forte la condanna ai diritti dei LGBT (Fusaro parla di “cultura gender”), visti, anche questi, come strumento che contribuirebbe ad “indebolire” i popoli europei, spingendoli a sposarsi di meno e a fare meno figli (io credevo che fossero i lavori precari e sottopagati, nonché la difficoltà a farsi una casa il vero problema per le giovani coppie, ma evidentemente continuo ancora a ragionare per “vecchi schemi ideologici”).

L’interpretazione "di sinistra", viceversa, mette l’accento soprattutto sulla critica al capitalismo finanziario. Ma anche il fenomeno migratorio viene messo in qualche modo sotto accusa, in quanto consente di ricattare la forza-lavoro autoctona e a farle accettare salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori.
Questo discorso è giusto, ma impreciso e insufficiente: l’attacco al salario dei lavoratori si basa, infatti, non solo e non tanto sull’immigrazione di massa, quanto su molteplici fattori, tra i quali la delocalizzazione, le esternalizzazioni, nonché sul tendenziale spostamento delle forze politiche di sinistra e sindacali, negli ultimi decenni, su posizioni assai meno combattive e più compatibili con le esigenze del capitale.
Inoltre l’immigrazione, sebbene sia il prodotto –in ultima analisi- dell’imperialismo (“globalizzazione”), rimane comunque un fenomeno essenzialmente spontaneo e non programmato, né programmabile (se non in minima parte, e più nella direzione dei flussi, che non nel fenomeno in sé).

Sui diritti dei LGBT l’interpretazione di sinistra non avrebbe in sé nulla in contrario. Solo che ritiene che questo genere di battaglie siano prerogativa delle forze politiche borghesi e che i partiti operai e comunisti non se ne debbano occupare per niente (anche su questo punto non concordo; la centralità della lotta di classe, per un comunista, non deve significare che non bisogna occuparsi anche delle battaglie sui diritti civili).


Ci sono parecchie cose che non mi convincono di questa corrente di pensiero, anche nella sua versione “di sinistra”. Ciò non significa, naturalmente, che al suo interno non possano trovarsi a volte anche intuizioni giuste ed interessanti. Ma di solito formulate in modo quantomeno discutibile.
Passiamo agli aspetti più critici.
A parte i tratti più palesemente razzisti e omofobi di questa corrente –che condanno senza mezzi termini- per il resto credo che il punto debole principale di tale pensiero stia nell’interpretazione delle dinamiche della “globalizzazione” come se fossero totalmente (o quasi) determinate, decise a tavolino, da un ristretto e omogeneo gruppo di potere, considerato semi-onnipotente. Una sorta di “grande fratello”, in grado di vedere, controllare e dirigere tutto ciò che si muove al mondo.

In realtà gruppi massonici e lobbies molto potenti esistono, eccome! Basti pensare, ad esempio, al Gruppo Bilderberg, alla Trilateral, ai Neocon e tanti altri, spesso poco noti al grande pubblico. Solo che questi, sebbene siano potentissimi ed abbiano enormi capacità di influenzare certe dinamiche “globali”, sono tuttavia ben lontani dal controllare tutto.
L’andazzo della guerra in Siria, ad esempio, ha preso una strada molto diversa da ciò che l’elite finanziario-politico-militare euro-atlantica aveva auspicato e programmato. Numerose sono le dinamiche che sfuggono al controllo e alla volontà di questi gruppi di potere.
Gruppi di potere che spesso sono, peraltro, anche molto meno omogenei di quanto appaiano o vogliano far sembrare.
Questo discorso sarebbe da approfondire, riprendendo la categoria di “imperialismo” di Lenin e attualizzandola alla realtà del 2017. Ma ovviamente non è possibile farlo qui.


A che cosa è dovuto l’emergere e il diffondersi di queste teorie in tempi recenti?
A mio avviso la causa principale sta nella crisi economica, accentuata dalle politiche di austerity, che ci impone l’UE -e specificamente l’area-euro- che sta tartassando e mandando in rovina gran parte della piccola e media borghesia.
Questi strati sociali si sentono sempre più schiacciati ed impoveriti, oltre che dalla crisi, dall’esasperarsi della concorrenza internazionale e dalle politiche economiche, che favoriscono le grandi multinazionali, spesso straniere (da qui l’odio nei confronti della “globalizzazione”).
E, come spesso accade, questi settori piccolo-medio borghesi tentano di influenzare gli strati sociali più proletari, i lavoratori, interpretandone il crescente malcontento ed indirizzandolo, però, dove interessa a loro, ossia, verso un impossibile ritorno indietro nel tempo, verso il vecchio capitalismo “buono”, più di stampo nazionale, dove la piccola-media borghesia aveva il suo spazio e il suo discreto benessere. In un’ottica, dunque, quantomeno conservatrice, se non reazionaria.

Un’ultima osservazione doverosa su Diego Fusaro.

Egli cita spesso Marx e Gramsci e si presenta come se fosse un interprete delle loro teorie. Ma, in effetti, il discorso che poi egli sviluppa si allontana tantissimo dal marxismo (e da Gramsci). Tanto per fare un esempio, dire che la “cultura gender” spinga gli italiani a non fare più figli significa proporre una tesi nettamente idealista. Ossia, l’esatto opposto della concezione marxista.

giovedì 7 settembre 2017

"Buonismo", ma che significa esattamente?

Molto spesso in politica (come anche in altri ambiti d’altronde) assistiamo al nascere e al diffondersi di termini, che in alcuni periodi riscuotono un grande successo, a livello di massa, fino ad entrare nel senso comune. Il più delle volte sono parole “di moda”, ossia diventano d'uso comune per un determinato periodo, per poi, in seguito, sparire di scena.
Si tratta di concetti di solito molto evocativi, cioè che suscitano reazioni emotive (positive o negative) e aspettative. E, soprattutto, danno la facile impressione, in chi ha scarsa dimestichezza con le dinamiche socio-politiche, di comprendere bene ciò che è in ballo.

Questo genere di termini devono il loro successo, paradossalmente, proprio al fatto di essere molto generici, poco specifici, quando non ambigui. Di solito, infatti, non definiscono nulla di preciso, sono concetti che sembrano esprimere tanto, a prima vista, ma, a ben vedere non dicono niente, se non in modo assai vago e impreciso.
Questa caratteristica permette un utilizzo di questi termini in modo molto libero ed arbitrario.

La diffusione di queste parole incontra particolare successo negli ambiti in cui vi è scarsa coscienza politica, com’è il caso dell’Italia degli ultimi 20-30 anni.
Tra questo genere di termini rientrano “complottismo”, “populismo”, “totalitarismo” e tanti altri, fino al sempreverde “libertà”.

Un concetto che nell’Italia recente sta avendo parecchio successo e si sta sempre più diffondendo è quello di “buonismo”.
Anche il termine “buonismo” sembra, in apparenza, voler significare tanto, ma in realtà, almeno in ambito politico, non significa assolutamente nulla.
La politica, infatti, è un fenomeno SOCIALE e con numerosi legami con l’economia. E non ha praticamente niente a che spartire con il carattere personale dei soggetti che governano. Senza contare poi il fatto che di solito chi siede formalmente a capo del governo, in realtà decide fino ad un certo punto (le decisioni che contano vengono prese dalle varie massonerie, o comunque da lobbies potentissime e poco appariscenti).
L’illusione che le politiche dei governi siano decise dal carattere e dalla psicologia del leader politico è tanto suggestiva, quanto erronea e fuorviante. Le politiche vengono sempre fatte in funzione di determinati settori o classi sociali e non seguono di certo criteri di “bontà”.

Di solito chi parla di buonismo lo fa quasi sempre con l’intento di criticare le politiche della cosiddetta “sinistra” (cioè, il PD), le quali sarebbero, secondo loro, eccessivamente favorevoli agli immigrati.
Questo discorso tradisce -nel migliore dei casi- una profonda ignoranza, a vari livelli (negli altri casi è fatto in malafede).

E infatti dovrebbe essere noto che in Italia le politiche sull’immigrazione sono regolate dalla legge. Legge che, dal 2002 (cioè da ben 15 anni) porta il nome di Legge BOSSI-FINI. Quindi una legge chiaramente di destra, fatta dallo stesso partito di Matteo Salvini. Perché nessuno lo ricorda mai?
Un’altra dimostrazione di superficialità sta nel credere che i flussi migratori siano determinati dalle politiche, più o meno accoglienti, del paese d’arrivo (che spesso, poi, non è nemmeno l’Italia, che molti degli immigrati vedono soltanto come un paese di transito). Non è così. Prova ne è che durante i recenti governi di Centrodestra (FI, AN e Lega) il numero degli immigrati è quasi triplicato.
Non parliamo, poi, di chi fa distinzione fra profughi di guerra e non. Come se fuggire da fame, miseria e persecuzioni fosse meno legittimo e accettabile che fuggire dalle guerre.

Si potrebbe andare ancora avanti a lungo nel mostrare quanta superficialità, quanti pregiudizi e stereotipi -e alla fine ignoranza- ci siano dietro chi lancia accuse di “buonismo”. Ignoranza sia in relazione alle cause più profonde dell’immigrazione, che alle sue reali dinamiche, alle sue effettive dimensioni, nonché alla reale capacità di assorbimento “indolore” (per gli italiani).

Ma il problema serio è un altro. Termini come “buonismo” non sono soltanto sintomo di ignoranza. Il loro utilizzo finisce per alimentare questa e per diffondere pregiudizi e stereotipi, ostilità, fomentando la classica guerra tra poveri, tanto cara ai ricchi sfruttatori.

E andando ad incidere in modo negativo sulla coscienza politica di milioni di italiani, oggi già bassissima.

sabato 13 maggio 2017

presidenziali francesi, voto utile e antifascismo astratto


Le varie reazioni e commenti, nel mondo della sinistra, sulla vittoria di Emmanuel Macron, alle elezioni presidenziali francesi, contro la sfidante Marine Le Pen, spaziano da quelli più entusiasti, che parlano di “trionfo della democrazia”, a quelli, via via più scettici e critici verso Macron, i quali comunque parlano di “scampato pericolo” o di “male minore” e ritengono che il rischio di una vittoria "fascista" sia stato scongiurato.
Sono tutti atteggiamenti che denotano quantomeno una superficialità e una carenza, se non mancanza di analisi.

La superficialità è data, a mio avviso, dal non comprendere le dinamiche profonde del potere nei paesi occidentali (e non solo) di oggi e che ci sia una grossissima differenza tra andare al governo e detenere il potere.
Nelle società come quella francese o italiana i governi cambiano, ma gli indirizzi generali di questi molto di meno. Questi non possono che riflettere gli interessi della classe sociale dominante (locale e anche internazionale), ossia, della grande borghesia, soprattutto quella finanziaria (a scanso di equivoci, questo non significa che i governi sono tutti identici, bensì che le differenze fra questi rivestono questioni per lo più secondarie, mentre le linee politiche generali sono uguali, ossia, quelle liberiste).

D’altronde l’abbiamo visto anche in Italia, negli ultimi 25 anni, dove, nonostante la ripetuta e ritrita “chiamata alle armi” e al voto utile del PdS-DS-PD contro il pericolo di Berlusconi e delle destre neo-fasciste e xenofobe, i vari governi, Centro-destra e Centro-sinistra, in modo “bipartisan”, si sono resi tutti protagonisti della restaurazione neo-liberista, che ha comportato privatizzazioni, attacchi al salario, alle pensioni, alla scuola, alla sanità, ai diritti dei lavoratori (con il boom di contratti sempre più precari) alla creazione di uno Stato sempre più autoritario, repressivo ed invadente (con la scusa della lotta al terrorismo), nonché militarmente sempre più interventista.

Complice di tutto ciò è stato quello che io chiamo “antifascismo astratto”, e che da decenni egemonizza la sinistra italiana ed europea.
Ma che si intende per “antifascismo astratto”?
Grosso modo si potrebbe definire come un atteggiamento di ostilità e/o di paura nei confronti di forze politiche o personaggi di destra, che prescinde dalla loro effettiva possibilità di nuocere, ossia in un contesto –come quello italiano ed europeo occidentale di oggi- che di fatto rende impossibile la restaurazione di un vero e proprio fascismo.
Le destre di oggi possono al massimo andare al governo, ma NON prendere il potere. Ossia, se pure dovessero andare al governo (cosa peraltro non facile per le forze più di estrema destra) saranno comunque tenute a seguire le linee generali delle società occidentali liberiste. Forse potrebbe esserci una maggiore repressione verso l’immigrazione, ma anche quella in misura assai limitata e forse più “scenografica” che altro. L’immigrazione, infatti, fa comodo ai grandi capitalisti, perché contribuisce ad abbassare salario e diritti dei lavoratori, e quindi nessun governo di destra potrà mai stopparla in modo serio.

Per l’antifascismo astratto, il “fascismo” viene visto come un male assoluto e sganciato dalle dinamiche delle classi sociali e dalla lotta di classe. Come se fosse un corpo o una malattia che vivesse di vita propria e che si insinuerebbe nella nostra società, per poi, da un momento all’altro, riaffiorare e ritornare al potere, per instaurare di nuovo un regime simile a quello del ventennio.

Palmiro Togliatti, forse il più grande studioso del fascismo, nelle sue “Lezioni sul fascismo”, collega chiaramente e ripetutamente tale fenomeno politico alla borghesia (specificamente ad alcuni strati di questa) e all’imperialismo.
Non solo: egli spiega che, contrariamente a ciò che comunemente si pensa, l’ideologia fascista non era un qualcosa di saldamente costituito, bensì alquanto eterogeneo e soprattutto funzionale agli obiettivi di quel periodo, di legare assieme differenti strati della borghesia.
Il fascismo, sebbene abbia, per Togliatti, delle caratteristiche proprie, rimane pur sempre una versione della più ampia dittatura della borghesia. Questa dittatura di classe rimane tale anche quando si presenta in forme più democratiche.

Viceversa, la grande maggioranza della sinistra oggi in Italia (comunisti compresi) stenta a vedere il problema principale nella (grande) borghesia e tende a collocare la lotta di classe, di fatto, in secondo piano, rispetto a quella, apparentemente più importante, di “destra-sinistra”, finendo facilmente per accantonarla e dimenticarla del tutto, quando crede di trovarsi in presenza di un presunto pericolo delle destre o del fascismo.
Finendo, così, per fare fronte comune assieme al suo vero nemico (tattica che è stata giusta negli anni 30-40 del secolo scorso, quando esistevano il fascismo e il nazismo, ma non oggi), ossia, alla borghesia finanziaria. Nemico che è molto più insidioso e pericoloso delle destre, se non altro perché si presenta in modo falsamente democratico e perché il suo autoritarismo non è mai esplicito, ma ben camuffato.

Infatti, oggi il paradosso è che il “fascismo” (se proprio vogliamo usare questo termine) -inteso come tendenza ad una società autoritaria, elitaria, oppressiva, sfruttatrice e guerrafondaia- viene portato avanti proprio da quelle forze politiche “democratiche”, o addirittura “progressiste”, le quali fanno appello al voto utile contro l’affermazione ed il pericolo delle destre.

Nell’Italia e nell’Europa di oggi, l’antifascismo, se vuole essere concreto e non astratto, deve prendersela semmai contro i vari Macron, Renzi, Merkel; contro la BCE, l’euro e contro la NATO.

Stiamo parlando di soggetti che, tra l’altro, non si fanno alcuno scrupolo a sostenere Stati, governi e forze politiche apertamente reazionari, come il governo golpista e filo-nazista ucraino, come lo Stato sionista di Israele, come i terroristi controrivoluzionari del Venezuela, come i terroristi jihadisti (spacciati per “opposizione democratica”) che da anni hanno gettato la Siria in una guerra sanguinosa, ecc.

lunedì 24 aprile 2017

elezioni in Francia. Dalla padella alla brace.

Le elezioni presidenziali francesi presentano al primo turno la vittoria, ampiamente prevista, di Marine Le Pen e quella –meno attesa- di Emmanuel Macron, il quale sopravanza il primo.
Ci sarebbe, per la verità, pure il successo di Melenchon, anche se non è andato al ballottaggio, ma su questo tornerò in seguito.

Già leggo una serie di commenti, che mi ricordano tanto i discorsi che dominavano nella sinistra italiana dei decenni passati. Ossia, che sarebbe preferibile che vincesse Macron, piuttosto che la Le Pen. Perché quest’ultima è “fascista”, e quindi è sempre meglio un “liberale”, che non una di destra.

I risultati di questa logica?
Sono sotto gli occhi nostri: oggi in Italia la sinistra vera e propria è semi scomparsa. A livello di massa, la “sinistra” è sostanzialmente identificata col PD (anche perché, diciamocelo, SEL ha fatto ben poco per distinguersi da questo) e le sue politiche ultra-liberiste e di austerity, che hanno ridotto e continuano a ridurre milioni di italiani sul lastrico.
D’altronde abbiamo visto nei decenni scorsi che ogni vittoria del “Centro-sinistra” era, in fin dei conti, una vittoria delle destre rimandata di qualche anno. Infatti, i governi di Centro-sinistra portavano avanti politiche liberiste (come e anche più di quelli del Centro-destra), creando malcontento nella società. La crescente insoddisfazione di massa, poi, sempre meno rappresentata dalla “sinistra”, si dirigeva sempre più verso le destre.

Lo schema mentale, dunque, per cui è da preferire un “liberale” ad uno di destra -perché il primo sarebbe quantomeno democratico, mentre il secondo no- poteva andare bene nel secolo scorso (e soprattutto negli anni ’30 e ’40), ma oggi non ha più alcun senso. E prima ci liberiamo da questo schema, meglio è.
Oggi, infatti, almeno in Europa, non esiste il pericolo del ritorno ad una dittatura classica, di tipo fascista.

Intendiamoci, la nostra società sta diventando sempre più autoritaria e repressiva.
Ma, intanto, non sono le destre tradizionali a renderla tale, bensì, ad esempio da noi, il PD.
Si tratta in effetti, di un autoritarismo bipartizan, molto meno esplicito, rispetto al fascismo, ma anche assai più insidioso.
Oggi il controllo sociale e il restringimento degli spazi di democrazia passa, ad esempio, attraverso il controllo dei mass-media (in barba al “pluralismo”), e dunque, delle coscienze, passa attraverso lo stesso sistema elettorale maggioritario, nonché una concezione sempre più leaderistica della politica, attraverso il recupero sistematico degli elementi “ribelli”, che vincono le elezioni (gli esempi sono numerosissimi –sia a destra, che a sinistra- e vanno da Tsipras a Obama, a Trump, alla Raggi, ecc.), attraverso l’annullamento di fatto dei risultati dei referendum (quello sull’acqua pubblica in Italia e quello –clamoroso- greco di due anni fa).
Per non parlare della dittatura economica, col ricatto del debito pubblico e del “non ci sono i soldi”, con il restringimento degli spazi sindacali, con il crescente potere delle multinazionali e delle banche sugli Stati.
Anche la censura, oggi, non è più esplicita, ma esiste. Solo è molto più subdola.

Dunque, il problema oggi non è il “ritorno al fascismo”, bensì il dominio –sempre più capillare e pervasivo- del grande capitale finanziario, delle banche, delle multinazionali e delle pulsioni guerrafondaie, che albergano nell’UE e nella NATO.
Se proprio vogliamo parlare di “fascismo”, questo oggi è sicuramente più rappresentato –in Francia- da Macron, che non dalla Le Pen.
Ciò non vuol dire che dobbiamo tifare per quest’ultima, ci mancherebbe. Anche perché nell’improbabile caso che questa vincesse il ballottaggio, sarebbe anche lei in gran parte costretta ad adeguarsi alle esigenze del capitale.
D’altronde Emmanuel Macron è un uomo del Gruppo Bilderberg (come lo sono stati, in Italia, Prodi, Monti, Letta, e altri ancora). E non è un caso che è passato in pochi mesi dall’anonimato al risultato finora migliore che hanno ottenuto i candidati francesi alle presidenziali.

Due parole su Jean Luc Melenchon.
Il suo relativo successo è dovuto, secondo me, al fatto che s’è saputo porre –finalmente qualcuno a sinistra che lo fa- come un uomo “di rottura”.
Contrariamente a tanti esponenti della sinistra anche “radicale”, in Europa, egli non s’è solo limitato a denunciare i limiti dell’euro-austerity, e della cosiddetta “globalizzazione” (ossia, imperialismo), ma è arrivato a prospettare anche un’eventuale uscita dall’euro.

Il problema è sempre quello: rappresentare il malessere e gli interessi dei ceti popolari, dei lavoratori, pensionati, disoccupati, ecc.
E non basta nemmeno quello. Questi settori devono essere organizzati e lottare, fino ad arrivare a costituire una notevole forza sociale. Altrimenti qualunque ipotetico successo elettorale sarà vanificato dai ricatti dello strapotere finanziario (vedi Tsipras).


domenica 12 febbraio 2017

Giunta Raggi: critiche, non canea mediatica.


Sono passati ormai sette mesi da quando al Campidoglio si è insediata la Giunta pentastellata di Virginia raggi. E credo che un primo, provvisorio, bilancio si possa incominciare a fare.

Ma prima andrebbe fatta una premessa: pur non essendo mai stato un sostenitore, né un votante del M5S, non condivido affatto tutta la campagna mediatica che ormai da mesi non fa che scatenarsi quasi ininterrottamente contro la Raggi e la sua giunta. Ormai quotidianamente la notizia principale dei nostri mass-media è la sindaca del M5S e i suoi problemi con gli assessori o con la polizza, o altro.
Chi capisce un minimo come funziona il nostro sistema mediatico, non può non cogliere in tale massiccia campagna una manovra strumentale (prima contro il NO al referendum costituzionale e ora probabilmente finalizzata più a far prevalere interessi e appetiti, in relazione al nuovo stadio e ancor di più alla speculazione edilizia che c’è dietro).

La Giunta Raggi andrebbe invece criticata, secondo me, per i suoi reali difetti e limiti.
E il primo mi sembra sotto gli occhi di tutti (“grillini” compresi) e cioè il fatto che il M5S s’è presentato ad un appuntamento così importante, come l’amministrazione del Comune di Roma, in modo del tutto impreparato e con un personale inadeguato.
Tanto è vero che hanno dovuto nominare come assessori (in seguito decaduti) dei personaggi molto discutibili e già ampiamente compromessi con la Giunta Alemanno.

Già da qui si dovrebbe capire che la politica non è una cosa semplice e che, anzi, richiede una vera e propria capacità professionale (ci sarà pure un motivo se in tutto il mondo esistono le facoltà di Scienze Politiche). Non basta certo essere dei “cittadini onesti” (anche dando per buono che lo siano per davvero) per governare una città come Roma. L’urbe, infatti, è una metropoli molto molto complessa e per diversi motivi. Ma qui il discorso va preso alquanto alla larga.

Roma, intanto, è capitale di due Stati (sì, c’è anche il Vaticano).
La “città eterna” è attraversata da una serie di dinamiche politiche ed economiche, che producono una lunga serie di esigenze, interessi e di lobbies. Quindi anche numerosi “appetiti”. Legittimi e meno legittimi, per non dire mafiosi.
Dalle “storiche” lobbies dei palazzinari, alle “cooperative” (quelle finte, intendo), a numerosi affaristi e speculatori di ogni genere, tra i quali le grandi multinazionali. E gli appetiti non riguardano solo la massiccia cementificazione (povera Roma!) legata allo stadio, bensì anche le possibili future privatizzazioni delle aziende municipalizzate e soprattutto delle utilities (acqua, luce, gas, ecc.).
A tutto ciò andrebbero aggiunti i massicci tagli che lo Stato ha effettuato in questi anni nei confronti degli Enti Locali, nonché politiche folli come la “spending review”.

Poi c’è la Chiesa Cattolica (ma il giusto proposito della Raggi di far pagare finalmente le tasse pure a loro, che fine ha fatto?). A Roma il 40% (o forse più) del patrimonio immobiliare appartiene alla Chiesa e il numero delle attività economiche (alberghi, ospedali, ristoranti, scuole, negozi, cliniche, istituti vari e altro ancora) è incalcolabile. Tutto o quasi esentasse.


Tutto questo sistema di potere è ben consolidato (a parte qualche “scossone” ogni tanto, ma dovuto solo a contrasti tra i diversi settori della borghesia).
E con tale sistema di potere a Roma occorre fare i conti, se si vuole amministrare questa metropoli. O ti metti d’accordo con loro, o altrimenti duri poco.
Ma se la Giunta Raggi e il M5S arriverà all’accordo con loro -e la probabile dipartita di Berdini andrà di sicuro in questa direzione- tradisce tutti i bei princìpi e i grandi discorsi del tipo “onestà”, “basta con la vecchia casta politica”, che erano alla base del loro grande successo elettorale e del loro seguito di massa. E diventerebbero né più né meno dei partiti o dei politici contro i quali hanno sempre inveito.


Ma quindi contro questo sistema di poteri che –di fatto- governa Roma, condizionando pesantemente tutte le giunte, a prescindere dal colore politico di queste, non si può fare proprio nulla? Siamo destinati a subirne per sempre le sue influenze, i suoi ricatti?
In realtà non solo si potrebbe fare tanto per quantomeno ridimensionare tali poteri, ma in passato ciò è stato anche fatto, almeno in una certa misura.
Quello che è stato probabilmente il miglior sindaco che Roma abbia mai avuto, Luigi Petroselli, fece tantissimo per migliorare la città, e soprattutto per venire incontro alle esigenze degli strati sociali più disagiati, delle borgate.

Ma egli ha potuto fare ciò non solo per le sue indubbie qualità personali, ma anche e soprattutto poiché nell’intero paese c’era un contesto generale molto diverso da quello di oggi. Allora ci furono grandi cicli di lotte dei lavoratori e esistevano delle organizzazioni –politiche e sindacali- forti, radicate e combattive, assai poco concilianti con i cosiddetti “poteri forti”. E che mettevano in discussione la società capitalistica complessivamente.
Oggi purtroppo non è più così.

E quindi, se vogliamo veramente cambiare le cose l’unico modo è quello di rimboccarci le maniche, a partire da tutti quanti, ciascuno per quello che può, e tentare, piano piano, di riprendere a lottare, ma soprattutto a ricostruire delle organizzazioni sindacali e ancor più politiche che sappiano mettere in discussione le politiche liberiste (e possibilmente l’intera società capitalistica, che le produce), a partire dalle istituzioni internazionali (l’euro soprattutto) che ce le impongono.

Altrimenti ci dovremo accontentare di forze politiche –come il M5S- che hanno ottime capacità comunicative e fanno tanti bei discorsi, ma che poi, quando vengono eletti e vanno a governare, finiscono sistematicamente per deludere tutte le attese.

lunedì 30 gennaio 2017

Sinistra e populismo in Italia. Riflessioni.

Sinistra
Una delle frasi divenute di moda, in Italia, da qualche anno a questa parte, è: "parlare oggi di destra e sinistra non ha più senso."
Sono sempre stato molto contrario con questa affermazione (o simili). Purtroppo debbo constatare, prendere atto, che qualcosa di vero -ahimé- c'è in questo discorso, almeno nell'Italia di oggi.
Da noi, infatti, il concetto politico di "sinistra" negli ultimi decenni ha finito per perdere del tutto, o quasi, il suo significato originario.
Per almeno 150 anni -e ancora oggi in gran parte del mondo- essere "di sinistra" ha sempre significato essere a favore dei ceti popolari e perseguire i loro interessi, a scapito delle classi più benestanti. Quindi, politiche di incremento dei salari e dei diritti dei lavoratori, lotta alla disoccupazione, politiche di welfare-state.
A livello più politico, "di sinistra" è chi propugna un ridimensionamento, una limitazione del potere della borghesia, e, contemporaneamente, un aumento del peso dei settori proletari nel governo e nelle istituzioni in genere.

A partire soprattutto dagli anni '90, in Italia, il concetto di "sinistra" ha finito, però, per perdere, a poco a poco, questa connotazione sociale, per identificarsi sempre più con un partito, cioè il Partito Democratico della Sinistra (PdS), poi divenuto Democratici di Sinistra (DS) e infine trasformato in Partito Democratico (PD).
Il fatto che il PDS discendesse da un partito prestigioso e indiscutibilmente di sinistra -com'è stato il PCI- ha fatto sì che l'associazione, nella mente della maggioranza degli italiani, tra sinistra e PDS si fosse prodotta in modo meccanico e scontato e avesse poi continuato a marciare per parecchi anni.

La dialettica politica tra PDS-DS-PD da una parte, e forze di Centrodestra (e soprattutto Berlusconi) dall'altra -dialettica, a mio avviso, fortemente gonfiata, dato che entrambi erano in fin dei conti fautori di politiche liberiste- ha ulteriormente "politicizzato" il concetto di sinistra in Italia (siamo arrivati al punto che perfino uno come Marco Travaglio -di scuola liberale e montanelliana- è stato da molti considerato "di sinistra" solo per le sue critiche a Berlusconi).

E così il termine "sinistra" ha finito per perdere qualsiasi connotazione di classe e quindi qualunque riferimento agli interessi dei ceti popolari, tant'è vero che il PDS-DS-PD -non meno del Centrodestra- fedele al liberismo e alle direttive UE e atlantiche, ha attaccato le pensioni (riforme Dini e Fornero), ha precarizzato il lavoro (Legge Treu e poi Jobs Act), ha privatizzato (più che altro svenduto a basso costo) imprese statali una volta in salute e che oggi sono fallite o comunque navigano in pessime acque (Telecom, Ilva, Alitalia, ecc.).
Anche la CGIL s'è adeguata, purtroppo, a tale andazzo (ne ho fatto parte per molti anni, ma le cose vanno dette): protestava vivacemente quando il Centrodestra attaccava i lavoratori e sostanzialmente taceva quando erano governi di Centro-sinistra a farlo.

Anche fuori dal PDS-DS-PD, il resto della sinistra -essenzialmente Rifondazione Comunista e suoi derivati (PdCI, SEL, ecc.)- ha subito pesantemente il clima di restaurazione liberista post-89, finendo per rimanere sostanzialmente subalterno all'egemonia del primo.

Il paradosso che s'è venuto a creare in Italia (non solo, però; anche in altri importanti paesi europei) è ben rappresentato dalle ultime elezioni comunali romane: nei quartieri del centro storico e in quelli benestanti ha prevalso il voto a "sinistra", mentre nelle borgate e nei quartieri più popolari -e in modo particolare proprio nella ex "cintura rossa"- la "sinistra" è andata male e il voto è andato prevalentemente alle destre e soprattutto al Movimento 5 Stelle.


Populismo
Parallelamente alla perdita del significato originario di "sinistra", negli anni recenti abbiamo assistito alla diffusione di un altro concetto, quello di "populismo".
Diciamo subito che il termine populismo sta riscuotendo un certo successo, perchè è il classico termine generico, poco definito e, diciamo così, adatto a tutte le stagioni. E quindi ben si presta ad etichettare negativamente l'avversario politico, soprattutto in mancanza di argomenti convincenti (e meno che mai di un'analisi).

Di solito per populismo si intende un tipo di governo -o di partito- che fa appello al popolo e ai suoi interessi/diritti, ma in modo strumentale e demagogico.
Il problema è che tale termine viene di solito utilizzato indistintamente per etichettare governi o forze politiche molto eterogenee tra di loro, se non diametralmente opposte, come concezione politica (c'è un abisso tra il Venezuela bolivariano e socialista di Hugo Chàvez -e oggi del successore Maduro- e, ad esempio, la Lega di Salvini, anticomunista, xenofoba e di natura piccolo-medio borghese).

Comunque, a ben vedere, l'utilizzo frequente ed indiscriminato del termine "populismo" per screditare altre forze politiche è indice di una visione politica, nella quale si è rinunciato a perseguire e a difendere gli interessi e i diritti dei ceti popolari e magari si accetta anche la logica dell'austerity (per le masse popolari, ovviamente, non certo per banche, multinazionali e spese per armamenti).
Chi ha sposato le politiche liberiste non riesce (più) a concepire il fatto che qualcuno possa fare appello al popolo e ai suoi interessi. E quindi tende a vedere chiunque lo faccia come un demagogo, a prescindere dal fatto se tale appello sia strumentale, oppure sincero e coerente.



Oggi in Italia esiste, come già accennato, un grande paradosso: da una parte abbiamo una "sinistra" (PD, soprattutto, ma non solo) che ha perso praticamente ogni legame -anche ideale- con i ceti popolari. E, dall'altra parte, questi ultimi tendono ad esprimere i loro interessi e soprattutto il loro malcontento spesso attraverso tematiche di destra, xenofobe, e premiandone le relative forze. Oppure usando tematiche "populiste" e votando per il Movimento 5 Stelle.

Quindi nella situazione attuale, per chi è sinceramente di sinistra (nel senso originario del termine) si presenta un compito difficilissimo, ai limiti dell'impossibile. Da una parte si tratta di recuperare concetti come "sinistra", "socialismo", "comunismo", che oggi sono ampiamente screditati agli occhi della maggioranza della gente.
Dall'altra parte andrebbe spiegato a milioni di proletari in difficoltà che è vero che il nemico di classe principale oggi è il capitale finanziario e chi lo rappresenta politicamente, ossia, l'UE e la zona-euro e in Italia il Partito Democratico. Ma la Lega di Salvini -che peraltro ha già governato l'Italia, non distanziandosi dal dogma liberista- non rappresenta certo una soluzione.
E tantomeno aiuta l'indirizzare tutta l'indignazione popolare contro un elemento molto appariscente, ma tutto sommato marginale, com'è la "casta" dei politici, nonchè facendo discorsi moralistici sull'onestà, discorsi che non tengono minimamente in conto la complessità della politica (non a caso parecchi esponenti del M5S quando poi entrano nelle istituzioni, tendono spesso a deludere le aspettative e appaiono, nella migliore delle ipotesi, come degli sprovveduti; il caso più evidente è quello della Raggi).


La vera scommessa, la vera sfida -a mio avviso- è quella di ricostruire una sinistra NEL SENSO ORIGINARIO DEL TERMINE che sappia radicarsi fra i ceti popolari e i lavoratori e diventare espressione di questi e dei loro interessi/diritti.
Per far ciò occorre portare avanti una politica DI ROTTURA contro le politiche liberiste e di austerity che ci impone l'UE -e soprattutto l’area-euro- e contro quelle imperialiste dell'Occidente e della NATO (che peraltro favoriscono l'immigrazione massiccia degli extracomunitari).
Rottura chiara e netta, dunque, col PD e con tutte le politiche a favore del capitale finanziario.

La sinistra deve ritornare a fare gli interessi del popolo. Altrimenti tenetevi il populismo (il quale, certo, per la borghesia costituisce un male minore).