lunedì 14 dicembre 2015

Le Pen...e della sinistra. Francese e non solo

Quando si parla di “sinistra” in Italia oggi occorre sempre fare una premessa, visto lo stravolgimento che ha subito il significato di questo concetto negli ultimi decenni in diversi paesi europei e in modo particolare proprio nel Bel Paese.

Per “sinistra” –nel suo concetto politico originario e tuttora valido in quasi tutto il mondo, tranne che da noi- si intendono quelle politiche in difesa dei lavoratori (e, più in generale, dei ceti popolari) dalla grande borghesia.

Ossia, la sinistra è quella che ci dovrebbe difendere dagli attacchi di quella classe dirigente, oggi concentrata soprattutto nelle grandi banche e nelle multinazionali (o transnazionali), cioè nel grande capitale finanziario. Che è quella che in definitiva ha il potere maggiore e che domina la politica, come s’è visto in modo molto evidente l’estate scorsa con le vicende relative alla Grecia.

 
E ciò che è accaduto ora in Francia con le ultime elezioni, in cui il Front National di Marine Le Pen si è ritrovato ad essere il primo partito, ha molto a che fare con questi discorsi.

Infatti, il governo del “socialista” (altro termine completamente stravolto) Francois Hollande ha fatto l’esatto opposto di quella che dovrebbe essere in teoria una politica di sinistra.

 
In sostanziale continuità con Sarkozy, Hollande ha mantenuto intatte le politiche liberiste, dettate oggi soprattutto dall’UE e dalla BCE.

E quindi, ad esempio, nulla ha fatto per contrastare le dinamiche che stanno indebolendo e disgregando il tessuto produttivo d’oltralpe (cosa che accade anche da noi in Italia), grazie alle delocalizzazioni e alla conseguente de-industrializzazione, oltre che alla crisi economica (la quale potrebbe essere efficacemente contrastata da altre politiche economiche, che però nell’Europa di oggi sono tabù).

 
Tutto ciò si ripercuote nella società francese con la perdita di migliaia e migliaia di posti di lavoro, aumento della disoccupazione, della precarietà e in generale con il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Tali dinamiche sono poi ulteriormente amplificate dalla forte immigrazione (anche di italiani) in quel paese, fattore che oggettivamente produce una concorrenza tra lavoratori “autoctoni” e “stranieri”.

 
Hollande –come Sarkozy- ha inoltre portato avanti una politica guerrafondaia, intervenendo militarmente in diversi scenari, soprattutto nel Mali (Africa Centrale) e recentemente anche in Siria, in risposta ai recenti attentati (chissà, forse fatti apposta) a Parigi.

 
La politica del “socialista” Hollande, dunque, è stata a tutti gli effetti una politica di destra, inteso come difesa degli interessi dei grandi potentati economici.

 
Oggi come oggi i ceti popolari francesi –come quelli italiani- vivono in un clima di crescente insicurezza: dalla paura di perdere il posto di lavoro (per chi ce l’ha), alla paura di non trovarne uno, o quantomeno uno decente e non precario (per i disoccupati), e in generale dal timore di perdere sempre più quel relativo benessere di cui avevano goduto dal dopoguerra ad oggi.

A ciò si vanno ad aggiungere gli attentati terroristici e il clima di islamo-fobia (così ben alimentato dalle distorsioni mass-mediatiche), se non proprio di xenofobia, che si sta diffondendo.

 
Tutto questo mix di incertezze, unite alla mancanza, o debolezza, della vera sinistra –che in Francia è rappresentata ormai dal solo Front de Gauche- hanno prodotto un cocktail micidiale, che elettoralmente si traduce da una parte nell’aumento dell’astensionismo e, dall’altra, nel recente risultato del FN.

 
Il sentimento anti-europeo (e, mi pare, sempre più anche anti-NATO) di per sé è positivo, se consideriamo il fatto che l’Unione Europea (e soprattutto l’euro) è stata plasmata per seguire gli interessi del capitale finanziario e a danno dei lavoratori e delle popolazioni. E quindi questi ultimi se ne stanno chiaramente rendendo conto.

 
Il problema è che questi giusti sentimenti vengono strumentalizzati dalle varie forze di destra o qualunquiste, le quali non hanno –e non possono avere- un vero e proprio progetto di trasformazione sociale in senso progressista, ma si limitano ad una generica difesa nazionalistica (in un mondo che si sta globalizzando), arrivando in alcuni casi ad incitare alla guerra fra poveri (che ai ricchi fa tanto comodo). Oppur, come nel caso del M5S, ad un “governo degli onesti”, che suona tanto bene, ma è poco chiaro e lascia spazio a mille interpretazioni (per quanto riguarda le scelte politiche). Anche perché la critica ai “politici disonesti” è superficiale e non va a sviscerare a fondo il problema centrale dei rapporti economici e di classe.

 
La lotta contro le politiche liberiste (di cui l’UE e la BCE sono capisaldi) è e deve ridiventare patrimonio della vera sinistra, quella che difende i lavoratori e i ceti popolari.

E, allo stesso modo, la lotta per uscire fuori dalla NATO e dalle politiche guerrafondaie, che sono proprio quelle che in questi anni hanno alimentato il terrorismo (piuttosto che combatterlo, vedi Afghanistan, Iraq, Libia e Siria).

mercoledì 9 dicembre 2015

Venezuela. La sconfitta dei bolivariani e il ricatto economico.

Il nefasto risultato delle elezioni legislative venezuelane del 6 dicembre, in cui –per la prima volta da oltre 15 anni di rivoluzione bolivariana- ha vinto l’opposizione conservatrice, legata alle oligarchie economiche e soprattutto agli Stati Uniti e alle sue multinazionali, merita sicuramente una piccola riflessione.

Per chi non lo sapesse, intanto, ricordo che nel Venezuela dal 1999 c’è stato un governo che aveva rotto con la tradizione dei precedenti governi, i quali avevano sempre operato per sostenere gli interessi economico-politici degli USA (in piena ottica da “cortile di casa”), oltre che della locale elìte, a danno di un popolo, tenuto da sempre nella povertà, nell’emarginazione, nell’ignoranza e in gran parte confinato a vivere nelle malsane baraccopoli.

Nel ’99 ci fu la svolta: i governi “bolivariani”, capeggiati dalla ormai mitica figura di Hugo Chàvez (morto poco meno di 3 anni fa, quasi sicuramente per avvelenamento), per la prima volta –sfidando gli Stati Uniti- hanno utilizzato i proventi del petrolio, di cui il Venezuela è ricco, non per continuare ad arricchire i soliti noti, bensì per programmi sociali, finalizzati a portare istruzione, sanità, lavoro e servizi sociali, e per politiche abitative in favore dei baraccati.
Va ricordato che, proprio per questo motivo, gli USA hanno tentato in tutti i modi di sabotare tale processo, anche con un tentativo (fallito) di Colpo di Stato, nel 2002.
Morto Chàvez, a dirigere la rivoluzione bolivariana è rimasto Nicolàs Maduro, figura, certo, molto meno carismatica del primo.

Ora, con la maggioranza filo-USA e filo-oligarchia finanziaria, tale processo di grande avanzamento e conquiste popolari sembra destinato quantomeno ad una battuta d’arresto, se non arretramento (anche se il presidente del Venezuela rimane, però, per il momento sempre Maduro).

Ma perché è potuto accadere questo?
Lungi da me un’analisi dettagliata, che richiederebbe sicuramente ben altri tempi e spazi. Mi limito semplicemente a focalizzare un elemento, che è stato di sicuro determinante e centrale in questa sconfitta: il tremendo attacco economico che il Venezuela ha subito ad opera degli Stati Uniti.
In modo particolare, la politica di abbassamento del prezzo del petrolio –portata avanti principalmente per piegare la Russia, ma con scarso successo- è stata particolarmente disastrosa per un paese come il Venezuela, che campava su questa ricchezza.
E ciò s’è andato ad aggiungere ad altri interventi, come il massiccio finanziamento (sempre da parte USA) alle forze politiche dell’opposizione. E ad altri problemi, tra cui, certo, anche errori del PSUV (il partito protagonista della “rivoluzione bolivariana”).

Possiamo forse intravedere per certi aspetti un’analogia con le vicende greche di quest’estate: fatte le dovute differenze –e sono tante- fra i due casi, i grandi poteri finanziari sono riusciti a piegare quest’estate il Governo Tsipras e ora quello bolivariano, utilizzando un meccanismo simile: il ricatto economico.
 

Questa osservazione ci dovrebbe portare –molto sinteticamente- a due conclusioni.
La prima è che ad una forza rivoluzionaria (o anche semplicemente progressista nell’Europa di oggi) non basta andare al governo, per poter cambiare radicalmente le politiche liberiste.
Occorre necessariamente poter incidere sui meccanismi economici, quindi bisogna aver potere sulle leve economico-finanziarie del paese, altrimenti il ricatto economico finirà inevitabilmente per snaturare o sconfiggere le politiche progressiste.
Certo, ciò verrebbe subito tacciato di “totalitarismo”, ma evidentemente il “totalitarismo” già esiste oggi, se è vero –e lo stiamo amaramente constatando- che una forza politica che vince le elezioni e va a governare, è poi impossibilitata a procedere a causa dei ricatti economici dell’elite finanziaria.

La seconda è che agire a livello nazionale, almeno in un paese di piccole o medie dimensioni, non è sufficiente per poter scardinare meccanismi che sono quantomeno continentali. E questo l’abbiamo visto soprattutto quest’estate in Grecia, dove un governo che ha provato a sfidare i potentati bancari europei, s’è ritrovato isolato e quindi a dover cedere di fronte alla Banca Europea.

In America Latina per la verità il Venezuela non è proprio isolato, dato che le tendenze progressiste degli ultimi 10-15 anni hanno coinvolto –in modo diverso- diversi paesi importanti (Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, Uruguay). E si sono creati e sviluppati importanti organismi economici ultranazionali (Alba, Mercosur) volti a rafforzare i legami tra i paesi dell’America Latina.
Ma una vera e propria integrazione del continente è ancora lontana (la stessa Argentina ha recentemente visto la sconfitta elettorale della Kirchner e il ritorno al potere dell’oligarchia filo-americana).

Ma intanto, nel silenzio mediatico, altre situazioni stanno cambiando. Pochissimi sanno che nel Burkina Faso (in Africa Centrale, per chi non lo sapesse) è forse in atto una seconda rivoluzione, dopo quella degli anni 80 di Thomas Sankara, repressa a suo tempo dai francesi. Forse. Ma la situazione è da seguire.