mercoledì 12 novembre 2014

Crollo del Socialismo 2: aspettative e risultati.


Il Crollo del Muro di Berlino, così come un po' tutti gli eventi degli anni 89-91 accaduti nei paesi dell'Europa Orientale, e che hanno portato alla fine dell'esperimento di costruzione del socialismo in quei paesi, sono stati salutati con enorme entusiasmo nell'Occidente capitalistico (per "Occidente", intendo sostanzialmente Europa Occidentale e Stati Uniti).

Infatti, dopo decenni in cui il capitalismo era stato duramente contestato, messo in discussione e fortemente contrastato e limitato (non solo nei paesi a Socialismo Reale, ma anche nell'Occidente, grazie alle politiche sociali e di intervento statale nell'economia), ora toccava al socialismo essere non solo messo in discussione, ma proprio abbattuto.



E il bello era che questa volta la fine del socialismo non avveniva attraverso un colpo di Stato e l'instaurazione di una feroce dittatura, ossia, dall'alto. No: questa volta erano le stesse masse popolari che apparivano condannare il socialismo e sbarazzarsene definitivamente, per tornare al capitalismo. Maggiore successo mediatico per la borghesia e per l'Occidente capitalistico non poteva capitare.



Tale narrazione era troppo bella perchè qualche studioso o intellettuale nostrano si fosse presa la briga di andare ad indagare un po' più approfonditamente che cosa stava veramente accadendo in quei paesi. E infatti tuttora non risulta essersi prodotto uno studio serio sugli eventi dell'89-91 nei paesi dell'est (almeno non da noi).

Viceversa, si è voluto credere al refrain semplicistico e superficiale della "democrazia" o della "libertà" che trionfava sul "totalitarismo".

La massima teorizzazione di allora fu quella di Francis Fukuyama (politologo statunitense), il quale parlò allora di "fine della storia".

Le vicende degli anni successivi hanno brutalmente smentito tale incauta affermazione.



Fukuyama a parte, la speranza grossa di quegli anni era che, con il crollo del socialismo (visto come la fonte di tutti i mali) si sarebbe aperta una nuova era di pace, democrazia e progresso.





Pace?

La fine della guerra fredda ha visto la moltiplicazione delle guerre e dei vari conflitti (anche molto cruenti): dalle guerre nella ex Jugoslavia, all'Iraq (più volte), all'Afghanistan, alla Cecenia, alla Libia, alla Siria e all'Ucraina, per citare solo le guerre più note. A questi andrebbero aggiunti altri conflitti meno noti, soprattutto nel continente africano (Ruanda, Somalia, Sudan, Niger, Congo e altri ancora).

E' significativo che praticamente in tutti, dico tutti, questi conflitti sono coinvolti gli Stati Uniti -direttamente o indirettamente- e/o la Francia e/o la Gran Bretagna (e non di rado anche la stessa Italia). E ciò anche quando tali tensioni vengono fatti apparire dai nostri mass-media come problemi strettamente locali..



Dunque, la fine della guerra fredda non ha affatto pacificato il mondo, ma -al contrario- l'ha reso più violento e pericoloso.

Grazie soprattutto agli USA (e alle sue lobbies, ad esempio quella delle armi), che, non avendo più un'altra potenza con cui dover fare i conti, nei decenni scorsi hanno provato a fare il bello e il cattivo tempo un po' dappertutto.

Meno male che negli ultimi anni qualcosa sta cambiando, con l'emergere della Cina, della Russia di Putin e dei paesi del BRICS.



Questo per quanto riguarda la pace. E con il progresso e la democrazia? Cosa è cambiato in quest'ultimo quarto di secolo?

Il progresso occidentale si è arrestato con la fine della bolla informatica (bolla iniziata peraltro già prima dell'89) e con la crisi economica attuale.

Nei paesi dell'Est Europa, col ritorno al capitalismo è esplosa la povertà, la disoccupazione, l'incertezza sociale e l'emigrazione (come possiamo notare anche da noi) verso altri lidi.

I cosidetti "nuovi ricchi" -un'esigua minoranza- provengono un po' tutti dalla dirigenza politica degli ex Stati socialisti (il che la dice lunga sulla facilità e la tranquillità con cui sono avvenute le presunte "rivoluzioni" dell'89).

A proposito di progresso, va registrato invece che, paradossalmente, i paesi emergenti sono soprattutto la Cina (rimasta socialista, anche se con elementi di capitalismo controllato), il Brasile (che da più di un decennio sta rompendo con le politiche liberiste, introducendo politiche di welfare-state), il Venezuela (altro paese che va verso il socialismo) e altri ancora.



Democrazia:

nei paesi dell'ex Patto di Varsavia, a parte la Russia di Putin (che non so quanto possa definirsi "democratica"), gli altri paesi sono finiti un po' tutti (o quasi tutti) nell'orbita della NATO e dell'Unione Europea.

Nella NATO non esiste democrazia: sono gli Stati Uniti a farla da padrone.

L'Unione Europea è talmente "democratica" che le decisioni più importanti (e vincolanti per i paesi aderenti) non vengono prese dal Parlamento Europeo (eletto dai cittadini), bensì dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dal Consiglio Europeo (entrambi organismi non eletti dai cittadini).



Due parole anche sull'Italia, dato che da noi gli eventi dell'89 hanno avuto ripercussioni politiche molto più forti che negli altri paesi occidentali.

In modo particolare con la fine del Partito Comunista Italiano, e nei decenni successivi sempre più, il nostro paese ha visto l'esplosione dell'astensionismo elettorale, che è indice quantomeno di sfiducia da parte dei cittadini di poter cambiare qualcosa attraverso le "libere elezioni democratiche" e quindi è una cartina di tornasole di una democrazia malata.

Oltre all'astensionismo, assistiamo anche all'emergere di nuove (nuove nelle forme, ma vecchissime nei contenuti) forme di populismo, alle varie riforme elettorali che distorcono il voto dei cittadini, spostandolo verso il centro, anche grazie all'introduzione delle soglie di sbarramento (grandissimo provvedimento democratico!?!?!), e -dulcis in fundo- la recente pratica di fare e disfare i governi da parte del Presidente della Repubblica, mettendo al governo elementi NON eletti dai cittadini, come Renzi.



Ma da noi si continua a festeggiare la caduta del Murto di Berlino.

Per giunta facendo finta di non vedere il nuovo muro della vergogna, molto più lungo, massiccio ed opprimente di quanto fosse quello. Ossia, quello che lo Stato Sionista di Israele ha costruito per opprimere e tenere prigioniero il popolo palestinese (dopo aver rubato loro la terra).

giovedì 6 novembre 2014

25 anni di Crollo del Muro di Berlino: propaganda mediatica e realtà (nascosta)

25 anni fa crollava il Muro di Berlino, mettendo fine ai "regimi" socialisti dell'Europa dell'Est, al Patto di Varsavia e alla guerra fredda.

La prima cosa da dire sull'evento specifico del 9 novembre 1989 è che tale fatto è stato talmente spettacolarizzato dai mass-media, che pochissimi sanno o ricordano come si svolsero effettivamente i fatti e come si arrivò all'abbattimento del muro.
La continua riproposizione di immagini in cui il "popolo" prende a picconate il muro o ci si arrampica sopra per festeggiare, è servita e serve a dare l'idea che quello sia stato un episodio "rivoluzionario", o qualcosa di simile: i tedeschi (sia dell'est che dell'ovest) che si sollevavano contro l'odiato muro che divideva in due la loro ex capitale e anche contro il "regime totalitario" della Repubblica Democratica Tedesca.

In realtà le cose andarono molto diversamente.
Tutto partì dal fatto che il governo della DDR di Egon Krenz (che aveva sostituito da poco Honecker) decise di aprire le frontiere con la Germania Occidentale e di dare il permesso ad alcuni suoi cittadini di espatriare.
Il popolo berlinese si è "sollevato" ed ha assaltato l'odiato muro DOPO aver appreso tale notizia e soltanto quando ha capito che nessun soldato della DDR gli avrebbe sparato addosso (magari fossero così semplici le vere rivoluzioni...).

Il processo che ha portato allo scioglimento della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e alla successiva unificazione con la Germania Occidentale (anche se di fatto è accaduto che quest'ultima ha annesso la prima) è stato un percorso molto più di vertice che di base. Il grosso della popolazione tedesca orientale è rimasto semmai spettatore passivo degli eventi.

Discorso molto simile va fatto per tutti gli altri paesi dell'Europa dell'Est, Unione Sovietica compresa: il passaggio dal regime socialista a ciò che noi chiamiamo "democrazia" (ossia, in realtà il capitalismo) è stato dappertutto un'operazione d'elite, in cui le popolazioni locali hanno svolto un ruolo assai marginale (le manifestazioni di piazza in concomitanza con tali passaggi vedevano tutt'al più la presenza di poche migliaia di persone).
Prova ne è che con l'avvento (o, meglio, il ritorno) del capitalismo, i "nuovi ricchi" che sono emersi in quei paesi provenivano -guarda caso- un po' tutti dalla vecchia classe dirigente degli ex Stati socialisti.

Inoltre, dà da riflettere un fatto curioso: ricordo personalmente che prima dell'89 da noi si diceva che nei paesi a Socialismo Reale la gente viveva male e che, se avessero potuto, sarebbero scappati tutti in Occidente.
E' significativo che l'immenso flusso migratorio dai paesi dell'Est Europa sia avvenuto, viceversa, negli anni successivi alla ottenuta "libertà".
Certo, si potrebbe obbiettare che prima dell'89 quei regimi proibissero alle loro popolazioni di andarsene via da lì (eppure un certo flusso, anche se molto più modesto, esisteva già allora). Ma non si capisce lo stesso come mai, ora che questi hanno raggiunto la tanto agognata "libertà", se ne siano fuggiti in massa, invece di rimanere a casa loro, per costruire dei paesi finalmente liberi, indipendenti e progrediti.

L'unica spiegazione di tale enorme flusso migratorio è che in realtà l'apertura al capitalismo occidentale ha fatto sì che numerose ricchezze e realtà produttive di quei paesi sono state svendute agli occidentali, molte fabbriche sono state chiuse e soprattutto molte garanzie sono andate perdute. Casa, lavoro, assistenza sanitaria, scuola, e così via. Nulla di tutto ciò è più garantito e la povertà in questi decenni è cresciuta, assieme alla delinquenza, alle varie mafie e alla prostituzione.

Nel 2009, vent'anni dopo il Crollo del Muro di Berlino, fece scalpore un sondaggio effettuato nella Germaina Orientale, in cui oltre la metà della popolazione riteneva che si vivesse meglio quando c'era la DDR.

Ma anche in Italia la fine del Socialismo Reale dei paesi dell'Est ha avuto, com'è noto, delle forti ripercussioni. In modo particolare, spingendo verso la fine del Partito Comunista Italiano e -ancor di più- favorendo l'avvio delle politiche liberiste, le quali stanno portando il nostro paese (e non solo il nostro) verso lo sfascio economico, politico e morale di questi giorni.

E noi festeggiamo ancora quest'evento?

martedì 30 settembre 2014

Jobs act, Governo Renzi e l'attualità di Marx

Non faccio parte di quel 40% (anzi, di quel 22%, considerando anche gli astenuti) degli italiani che alle ultime elezioni europee ha votato per il PD di Matteo Renzi.
E quindi non mi aspettavo nulla di positivo da parte di questo governo. Anche perchè dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che le politiche dei governi italiani sono sempre più condizionate -se non imposte- dall'Europa (oltre che dagli USA).
Dunque, il Jobs Act del Governo Renzi non è stato concepito dalla mente dell'ex sindaco di Firenze, ma è stato fortemente voluto dalla Confindustria e dall'Europa delle banche e del capitale finanziario, per rendere i lavoratori più licenziabili, e dunque più precari e ricattabili, e quindi per poter abbassare (ulteriormente) il costo del lavoro ed aumentare i livelli di sfruttamento (anni fa anche in Germania ci fu, in tal senso la Riforma Hartz, che introdusse i "minijobs").

Ma che cos'è il Jobs Act?
Diciamo che molto ruota intorno alla famosa questione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ossia, quello del licenziamento che può avvenire soltanto per giusta causa.
Questo non viene immediatamente cancellato, ma eliminato in modo graduale e progressivo -a partire dai nuovi assunti- per essere sostituito dal contratto "a tutele crescenti" (il nome suona bene, ma la realtà è ben diversa).
Tutti i diritti (conquistati, è bene ricordarlo, in decenni di dure lotte) non saranno in teoria eliminati, ma si otterranno dopo diversi anni di lavoro. Il problema è: quanti saranno i lavoratori che riusciranno a raggiungere un'anzianità lavorativa tale, da poter godere di questi diritti e non poter più essere licenziati (se non per giusta causa)? Prevedibilmente sarà una percentuale molto bassa.

Sull'articolo 18, poi, vanno chiariti alcuni equivoci.
Spesso, infatti, si sente tirare fuori l'argomento per cui a causa di tale articolo non si possono licenziare persone che lavorano poco e/o male (i "lavativi") o addirittura che danneggiano l'azienda o l'ente. Specialmente nel settore pubblico è pieno di questi soggetti.
In realtà i "lavativi" sono nella maggior parte persone raccomandate e vengono protette da qualcuno che conta e non certo dall'articolo 18. Se si facessero (il discorso vale ovviamente soprattutto per il pubblico) i dovuti controlli, molti di questi soggetti potrebbero essere benissimo licenziati anche oggi.

Ma si sa come funzionano tante cose in Italia: con la scusa dei falsi invalidi o dei pensionati non aventi diritto, alla fine si tolgono servizi e reddito a quelli che ne hanno veramente bisogno e diritto e quindi anche i "lavativi" sono utili per poter licenziare i lavoratori bravi quando serve o quando osano rivendicare salario o diritti.
Infatti, la cancellazione dell'articolo 18 serve proprio a questo: rendere i lavoratori più ricattabili e quindi maggiormente disposti ad accettare salari più bassi e turni di lavoro più massacranti.
Senza contare che si va anche verso la possibilità del demansionamento, per cui un lavoratore può benissimo essere degradato di ruolo e vedersi ridurre il livello e quindi, di nuovo, lo stipendio.
Tra l'altro il facile licenziamento avrà con ogni probabilità anche come conseguenza un (ulteriore) calo delle nascite e dei matrimoni. Infatti, una lavoratrice che desiderasse andare in maternità verrebbe immediatamente espulsa dal lavoro.



Le politiche europee (e Renzi), quindi, pensano di risolvere la crisi economica -che è essenzialmente una crisi di profitti- abbassando, di fatto, il salario dei lavoratori e dei ceti popolari. Sia il salario diretto (ciò che entra nella busta-paga) che quello indiretto (pensioni, servizi socio-sanitari, ecc.), che subisce continui tagli.

E qui entra in ballo Marx.
La crisi di profitti (sto semplificando) è una tendenza a lungo termine, connaturata al capitalismo. Questa, però, può essere temporaneamente -ma solo temporaneamente- risolta attraverso diversi fattori (che Marx chiama "fattori di controtendenza alla caduta del saggio di profitto").
Non elenco qui tutti questi fattori. Mi limito solo ad osservare come l'Europa stia puntando sul peggiore di tutti, sul più retrogrado, ossia, sull'abbassamento del salario.
Questo genere di misure potrebbero, in teoria, anche portare -nel breve-medio termine- a qualche "segnale di ripresa". Ma, quand'anche fosse, si tratterebbe di un sollievo assai effimero, dopodichè la crisi non tarderebbe a riprendere drammaticamente il suo corso.

Ma il vero allarme -a mio avviso- sta proprio nel fatto che l'Europa punti (quasi) esclusivamente a tale fattore, cioè all'abbassamento del costo del lavoro.
E' qui che emerge una tendenza di fondo di carattere addirittura storico: l'Europa e gli USA, dopo secoli di egemonia economica, politica, scientifica, tecnologica e culturale, stanno imboccando decisamente la strada del declino.
Viceversa, altri paesi dell'ex Terzo Mondo (Cina in testa; ma anche India, Brasile, ecc.) stanno emergendo non solo a livello economico-commerciale, ma anche nella ricerca scientifica, nell'innovazione tecnologica (perfino il Venezuela ha lanciato il suo primo satellite) e in altre sfere.

L'immagine che abbiamo della Cina, la quale fabbrica ed esporta prodotti di bassa qualità, ma economici, appartiene ormai al passato. Tra pochi anni saremo noi europei a produrre a basso costo prodotti di scarsa qualità, mentre la Cina -prevedibilmente- non tarderà a prendere il posto della Germania e degli USA.
Prepariamoci ad un futuro in cui diventeremo noi gli "immigrati".

venerdì 19 settembre 2014

patriottismo, nazionalismo e la vicenda dei due Marò

Non sono mai stato una persona molto patriottica.
O forse sì: forse lo sono stato molto più di quanto io stesso me ne rendessi conto.
E, anzi, negli ultimi anni ho molto rivalutato l'importanza di una certa dose di patriottismo, che a ben vedere non è necessariamente in contraddizione con l'internazionalismo.

Di solito il patriottismo viene associato ad una matrice politica di destra, ma in realtà le cose non stanno proprio così: molto spesso i socialisti, i comunisti, i rivoluzionari hanno fatto appello al patriottismo (vedi ad esempio il noto slogan dei rivoluzionari cubani "patria o muerte").
Diciamo che non sono mai stato un nazionalista, ma quella è un'altra cosa.

Il patriottismo è un generico sentimento di amore verso il proprio paese, i suoi costumi, la sua cultura, i suoi usi.
Mentre per nazionalismo di solito si intende una teoria, che reputa un determinato popolo o nazione in una posizione di superiorità, rispetto agli altri. E questo sì, è tipicamente di destra.
Spesso, infatti, il nazionalismo è servito a perseguire o a giustificare politiche aggressive e di dominio di certi Stati nei confronti di altri più deboli, soprattutto durante il colonialismo (anche se poi a ben vedere chi beneficiava veramente dei vantaggi delle politiche aggressive era solo la classe sociale dominante; non certo il popolo o i soldati, che magari combattevano, loro sì, per sentimenti patriottici).

Ma molto spesso accade che il nazionalismo venga anche utilizzato strumentalmente proprio per camuffare l'opposto, ossia, una subordinazione di fatto.
Ad esempio, durante la dittatura golpista e sanguinaria in Cile, i militari facevano appello al nazionalismo, ma in realtà questo serviva a coprire la lunga mano degli Stati Uniti, i veri artefici, nonchè beneficiari di quella crudele dittatura.

Mentre, viceversa, un certo patriottismo, quando è legato alle esigenze di emancipazione di un popolo oppresso da un'altra nazione dominante, allora è sicuramente un fatto positivo e progressista.



Ha senso oggi in Italia essere patriottici?
Se lo si è nel giusto modo, sì.
Fin dal dopoguerra, infatti, il Bel Paese è stato ridotto ad una condizione di "sovranità limitata" di fatto.
Durante questi decenni gli Stati Uniti hanno condizionato pesantemente la politica italiana, arrivando perfino -tramite la Gladio- ad esercitare un ruolo nella stagione del terrorismo, tra l'altro facendo fallire il Compromesso Storico.

Ogni governo italiano per insediarsi deve avere prima il "placet" americano (mentre quello del popolo conta molto di meno, come abbiamo visto anche in questi ultimi anni).
Gli USA inoltre posseggono -attraverso la NATO- oltre 100 basi militari nel nostro territorio, dove per giunta alloggiano diverse decine di testate nucleari (e sono sempre loro a decidere se, come e quando usarle).
Come se non bastasse, gli yankees esercitano un notevole potere economico ed una fortissima influenza ideologica su di noi, grazie all'utilizzo di strumenti e tecniche di comunicazione sempre più raffinate e pervasive (TV, giornali/riviste, internet, social networks ecc.).
Oltre agli USA, l'Italia è subordinata anche all'Europa (essenzialmente alla Germania) che ci toglie sovranità economica, grazie all'Euro, e ci impone politiche economiche socialmente devastanti.

Dunque, il patriottismo è sicuramente utile laddove questo serve a battersi contro lo strapotere americano (e, in misura minore, tedesco) in Italia. Non lo è -anzi, è controproducente- quando invece copre la nostra reale suddittanza.

A livello politico-istituzionale, infatti, i sentimenti patriottici sono stati tirati fuori di recente in almeno 3 occasioni: nel 2003, con i caduti di Nassirya, in Iraq, sul caso Cesare Battisti in Brasile e attualmente con la vicenda dei due Marò in India.
Nel primo caso, quello di Nassirya, si è incitato all'orgoglio nazionale per coprire il fatto che abbiamo invaso militarmente un paese praticamente solo per supportare gli americani, che ce lo avevano richiesto (d'altronde anche Sarkozy s'è comportato allo stesso modo, ritirando in ballo la "grandeur" francese, in occasione dell'intervento in Libia, perseguito essenzialmente nell'interesse degli USA).

Il caso di Battisti, in Brasile, e dei due Marò in India è un po' diverso: lì ci troviamo di fronte ad una resistenza, da parte dell'Italia, a riconoscere l'aumentata importanza, sulla scena mondiale, di questi due paesi (nonchè la diminuita importanza dello Stivale).
I diplomatici nostrani, abituati da decenni a trattare India e Brasile come Stati del Terzo Mondo -e quindi con una certa sufficienza- ora si trovano in difficoltà di fronte ad una situazione mutata, che vede i due paesi in questione progredire e aumentare di peso sotto molteplici aspetti (pochi anni fa, ad esempio, entrambe i paesi hanno superato l'Italia come produzione industriale; e sono in continua ascesa, mentre essa da noi diminuisce anno per anno).

Da notare che nell'ambito dei rapporti politico-diplomatici poco importa se le persone in questione -Battisti e i due Marò- siano state realmente colpevoli o meno (ricordiamoci come il pilota americano responsabile della tragedia del Cermis -20 italiani morti!- venne subito rimpatriato negli States e nel relativo processo venne sostanzialmente assolto. Lì il messaggio diplomatico che gli americani ci hanno mandato era questo: a casa vostra comandiamo noi e facciamo impunemente come ci pare!)

Dunque, tirare in ballo il nazionalismo nel caso dei Marò equivale a farsi grandi contro un paese (che noi riteniamo) inferiore, mentre contemporaneamente ci dimentichiamo di essere poco più che una colonia degli USA, per giunta bistrattata.

Ancora più ridicola è l'esibizione di un presunto patriottismo (o nazionalismo) di fronte al fenomeno dell'immigrazione: l'ostilità nei loro confronti da parte di molte persone può essere definita solo in un modo: guerra tra poveri!
E non c'è assolutamente nulla di patriottico in ciò.
(a scanso di equivoci, NON mi piace bollare le persone che odiano gli extracomunitari come "razziste"; non solo perchè scadrei in un discorso moralista -poco utile- ma perchè tale ostilità ha di solito poco a che vedere con il razzismo vero e proprio; si tratta il più delle volte di mancata comprensione del fatto che gli immigrati -come d'altronde pure gli italiani non benestanti- sono alla fine vittime del capitalismo e delle sue molteplici forme di sfruttamento).

martedì 9 settembre 2014

L'attentato alle Torri Gemelle e l'invasione dell'Afghanistan


"La storia si ripete sempre due volte", diceva Marx, "la prima volta come tragedia e la seconda come farsa."
A giorni cade il 13 anniversario dell'attentato alle Torri Gemelle di New York dell' 11 settembre 2001.
Questo episodio costituisce in tal senso un'anomalia: qui abbiamo contemporaneamente sia la tragedia che la farsa. Che tale attentato sia stato una tragedia, su questo c'è poco da discutere. Ma anche l'elemento farsesco non è mancato.

In effetti l'interpretazione mass-mediatica ufficiale lascia assai perplessi. La favoletta di Bin Laden, che, a capo di un'organizzazione fondamentalista islamica, pensa di portare avanti in questo modo la "guerra santa" contro l'Occidente infedele, fa acqua da tutte le parti.
Intanto la versione ufficiale sia dell'attentato che del successivo intervento militare in Afghanistan ha qualcosa di hollywoodiano: i "cattivi e prepotenti" che aggrediscono gente innocente, ma poi dopo "arrivano i nostri", i quali si battono per far trionfare il bene sul male.
E gli americani sono riusciti così tanto a far trionfare il "bene", che i soli soldati della coalizione morti nella guerra afghana hanno superato quelli delle Torri Gemelle (i morti fra i civili afghani sono ovviamente un numero molto superiore).

Ma torniamo all'attentato.
Non essendo io un ingegnere, non mi dilungherò troppo su questioni tecniche, anche se -da "profano"- faccio fatica a credere che un aereo possa riuscire a far crollare a terra un grattacielo di quelle dimensioni (è noto che anni fa a Madrid un grattacielo subì un incendio che lo distrusse completamente, ma la struttura portante, a differenza delle Torri Gemelle, rimase in piedi).
Ancora più incredibile è la storia del crollo del terzo edificio (il World Trade Center 7), avvenuto -così dice la versione ufficiale- per i calcinacci caduti dalle due Torri Gemelle sull'edificio (?!?!?).

Inoltre rimane un mistero l'impossibilità a reperire un video del (presunto) aereo finito quella stessa mattina sul Pentagono.
Quando si parla del Pentagono, si parla della struttura probabilmente più monitorata al mondo, intonro al quale ci saranno state centinaia di telecamere. Impensabile che non esistano dei video sull'episodio. Perchè i vertici americani non vogliono farci vedere quei filmati?
Ci sono, inoltre, una serie di altre incongruenze di tipo tecnico o organizzativo (relativi, ad esempio, al mancato intervento difensivo, ecc.) sui quali, non essendo un intenditore, preferisco tralasciare.


Desidero, invece, sollevare l'attenzione sull'assurdità della versione ufficiale dei fatti, dato che poi è quella che la maggioranza della gente dà per buona. E che invece, ad un'osservazione un po' meno superficiale -anche da non specialista- appare di scarsissima credibilità.

Se è vero che l'attentato alle Torri Gemelle fosse stato ideato, progettato e preparato da Bin Laden e da Al Qaeda per la causa della religione islamica, bisogna dire che gli organizzatori hanno commesso -dal loro punto di vista- una serie impressionante di errori madornali.

Tanto per cominciare, con un simile attentato -che, ricordiamo, ha avuto un impatto mass-mediatico eccezionale- l'immagine che si dà al mondo dell'islam è estremamente negativa: è quella di una religione di pazzi, fanatici, assassini, che uccidono, a freddo, migliaia di persone innocenti. Decisamente controproducente per la causa dell'islam!
Ma anche all'interno dello stesso mondo islamico gli attentatori non hanno fatto un grande affare: la condanna dell'attentato è stata totale e inappellabile da parte di tutti i paesi a prevalente religione islamica e di praticamente tutte le comunità mussulmane delle varie confessioni (sunniti, sciiti, ecc.) presenti nel mondo. Cosa tra l'altro prevedibilissima.
Come pensava Al Qaeda di poter sostenere una "guerra santa", alienandosi le simpatie del mondo intero, islamico compreso, è tutto da capire.

Non serve, poi, essere studiosi di strategie politico-militari per capire che non si può attaccare apertamente quella che è di gran lunga la più grande potenza politico-militare mondiale (e a quei tempi, nel 2001, si può dire anche l'unica), cioè gli Stati Uniti, senza subirne durissime conseguenze. Soprattutto se non si ha nemmeno l'appoggio di un'altra potenza. Sarebbe come se un coniglio provasse ad attaccare apertamente un leone.
I nostri mass-media, a dire il vero, ci riferivano che Al Qaeda era sostenuta dall'Afghanistan. Il cui livello di potenza era paragonabile a quello del Burundi.

Se almeno Bin Laden avesse avuto l'accortezza di attaccare, al posto delle Torri Gemelle, una base militare americana, magari in Medio Oriente, forse era possibile che qualche simpatia da parte delle popolazioni di quell'area l'avrebbe ottenuta (ma sarebbe stata comunque ampiamente insufficiente per sostenere uno scontro con gli USA).

In ogni caso è impossibile organizzare un attentato come quello dell'11 settembre 2001, senza che la CIA non lo venga a scoprire. Anche perchè risulta che Bin Laden avesse avuto buoni rapporti con la CIA durante l'invasione sovietica (e probabilmente anche dopo).
Tra l'altro qualche anno fa è venuta fuori la notizia che la CIA effettivamente sapeva bene della preparazione dell'attentato. Perchè non ha fatto nulla per impedirlo?

La risposta la possiamo ricavare osservando la cartina geografica dell'Asia: l'Afghanistan si trova quasi al centro di quel continente; all'est c'è la Cina, al sud il Pakistan e l'India, all'ovest l'Iran (vecchia spina nel fianco degli USA) e al nord, anche se non immediatamente confinante, abbiamo la Russia.
L'Afghanistan è un paese geograficamente strategico per gli Stati Uniti, nel cuore di un continente che oggi sta seriamente mettendo in discussione la loro egemonia economica globale. Gli americani DOVEVANO invaderlo a tutti i costi. E, per poterlo fare, serviva una valida giustificazione davanti a tutto il mondo.
L'attentato alle Torri Gemelle, guarda caso, è caduto a pennello.

lunedì 21 luglio 2014

USA, BRICS, Ucraina, Gaza....sarà guerra?

La scorsa settimana c'è stato un evento molto importante, per quanto riguarda i futuri assetti economico-politici mondiali. Tale evento -senza retorica- porrà le basi per un prossimo radicale mutamento dei rapporti di forza economico-politici nello scenario globale.
Quest'evento è stato talmente importante, che in Italia -e per la verità un po' in tutta Europa- tale notizia è passata quasi totalmente inosservata. Sembra quasi un silenzio-stampa. Invano ho provato a cercarla nei siti internet dei principali quotidiani italiani (ma anche in quelli francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi...). Se fossi un "grillino" direi: "questo non ve lo dice nessuno".

Ma di quale evento si tratta?
Parliamo del vertice dei paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) tenutosi il 15-16 luglio in Brasile, a Fortaleza.

Senza dilungarsi nei particolari, il dato importante emerso da quest'incontro è la creazione di una Banca di Sviluppo. Ossia, una banca alternativa alle due istituzioni finanziarie che hanno dominato l'economia mondiale fino ai giorni nostri (ed egemonizzati dagli Stati Uniti), ossia il FMI (Fondo Monetario Internazionale) e la Banca Mondiale.
La differenza fondamentale tra la Banca di Sviluppo che stanno per realizzare i paesi del BRICS e il FMI e BM è che mentre quest'ultime condizionano pesantemente le politiche economiche degli Stati, in senso liberista, la prima non lo fa, lasciando piena libertà a quei paesi che vi attingono.
E questo è un enorme vantaggio per i paesi emergenti.

Le decisioni uscite fuori dal vertice di Fortaleza pongono le basi per una futura emancipazione di questi paesi (e non solo di questi) dal dollaro e quindi dagli USA. E stiamo parlando di paesi in cui vive il 40% della popolazione mondiale e le cui economie sono in forte crescita e supereranno in tempi non lunghi quelle dell'intero Occidente.
Non solo: al vertice sono stati invitati capi di Stato di diversi paesi, soprattutto dell'America Latina (Argentina, Venezuela, Ecuador, ecc.).
Ovvio che gli americani vedano tutto ciò come fumo nell'occhio e faranno di tutto per impedire lo sviluppo di tali dinamiche.


Ora, leggendo il titolo dell'articolo, qualcuno si chiederà che cosa c'entra l'Ucraina e Gaza con tale evento?
Moltissimo!

Chi si intende un po' di geo-politica e non si accontenta delle versioni dei nostri mass-media (sostanzialmente egemonizzate, o quantomeno influenzate dagli USA) dovrebbe avere ben chiaro che il colpo di Stato dei mesi scorsi in Ucraina (camuffato -malamente- da "rivoluzione") e le continue provocazioni contro la Russia (l'ultima è quella dell'aereo malese colpito; poi ci sono le sanzioni economiche, e tanto altro) costituiscono un tentativo, da parte degli Stati Uniti, di spingere la Russia verso la guerra. E ciò proprio per tentare di contrastare i paesi del BRICS, indebolendo uno di questi paesi (dato che gli USA sul piano militare sono, almeno in teoria, più forti della Russia, e possono contare pure sui paesi europei, grazie alla NATO).

Dunque, gli americani e il loro presidente Obama "Nobel per la pace", vogliono a tutti i costi scatenare una guerra contro la Russia, ma naturalmente la vogliono in Europa, ossia, lontano da casa loro: il tributo di sangue e di distruzioni dobbiamo essere noi europei a darlo, non certo loro.

E Gaza? Cosa c'entra Gaza con tutto ciò?
Apparentemente qui il discorso sembra non avere niente a che fare. Da decenni, infatti, Israele sta combattendo una guerra per cacciare via il popolo palestinese dalla sua terra, distruggendo le loro case, massacrandone la popolazione, e tutto ciò in barba a diverse risoluzioni dell'ONU, che dicono il contrario, ma che lo Stato sionista di Israele fa finta di ignorare, potendo contare quantomeno sul silenzio, se non sull'appoggio dell'Occidente, Stati Uniti in primis.

Ma gli eventi recenti sembrano aggiungere un altro elemento.
Al largo di Gaza è stato scoperto un giacimento di gas, che Hamas (l'organizzazione palestinese che governa la Striscia di Gaza) intendeva sfruttare, grazie all'aiuto di Gazprom (russa, per chi non lo sapesse).
Pochi giorni dopo tale decisione, ignoti caturano e uccidono i tre giovani israeliani e il governo di tale paese scatena il genocidio della popolazione di Gaza, invadendone il territorio.

Pura coincidenza?
Mah...
Fatto sta, che grazie agli Stati Uniti e a Israele si avvicina, a cent'anni di distanza dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, un nuovo possibile conflitto.

lunedì 14 luglio 2014

Grande, Renzi, è riuscito ad ottenere.....niente!

C'è una buona notizia per chi odia gli immigrati!
Oddio, la notizia, a dir la verità, è tutt'altro che buona. Ma per chi ha la lungimiranza di credere che il problema principale in Italia siano gli extracomunitari, è senz'altro un'ottima notizia.

Gli immigrati in Italia incominciano a diminuire.
Secondo i dati che l'ISTAT ha pubblicato recentemente, gli ingressi di extracomunitari nel nostro paese sono diminuiti, nel 2012, del 27,7%, rispetto al 2007.
Contemporaneamente aumenta il numero di stranieri che se ne va via dal Bel Paese (+17,9%).

A tali dati, però, andrebbe aggiunto un altro fenomeno, per comprendere meglio ciò che effettivamente sta accadendo: aumentano enormemente gli italiani che espatriano, in cerca di maggior fortuna all'estero.
Dunque, gli italiani hanno ripreso, dopo parecchi decenni, ad emigrare alla grande.

Entrambi i fenomeni di cui sopra sono evidenti indici di un peggioramento delle condizioni di vita nel nostro paese.
E, tanto per avere una conferma, la Caritas denuncia -dati alla mano- il raddoppio del numero dei poveri assoluti in Italia dal 2007 al 2012.
Cala, inoltre, la produzione industriale, del 6,7% nel 2012, rispetto all'anno precedente, e addirittura del 25% rispetto al 2008 (Corriere.it).
Naturalmente aumenta anche la disoccupazione (e il precariato; questo anche per le leggi sul lavoro).
Manco a dirlo, assistiamo ad un vero e proprio boom di chiusure aziendali (piccole-medie imprese, laboratori artigianali), nonchè di esercizi commerciali.

Arrivati a questo punto, la maggior parte degli italiani sarebbe portata "istintivamente" a dare tutta la colpa ai soliti politici "ladri", "magna-magna", "corrotti", ecc.
Niente di più sbagliato e fuorviante!
Anche perchè la crisi economica che attanaglia l'Italia, la ritroviamo -con poche varianti- negli Stati Uniti, in Giappone e in molti paesi europei (e non soltanto in Spagna, Grecia, Portogallo, ma anche in Francia, in Gran Bretagna e qualche accenno perfino in Germania).

Per carità, non che voglia difendere il nostro ceto politico attuale -certo, il peggiore dal dopoguerra; ma è anche il prodotto dell'ubriacatura anticomunista dall'89 in poi- ma il vero problema non è la "casta politica", bensì il CAPITALISMO.
Siamo in presenza di quella che Marx chiamava la crisi di sovrapproduzione di capitali (e quindi di merci), legata alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Senza addentrarci troppo alle questioni economiche, il dato di fatto è che tendenzialmente tutto il mondo capitalistico, e soprattutto tutti i paesi che nei decenni scorsi hanno adottato politiche liberiste, è in crisi.
La crisi anni fa si fece sentire pure in Cina (come conseguenza di quella occidentale). Ma il paese che da noi viene superficialmente bollato come "dittatura" o "totalitarismo", ha adottato politiche oculate di aumento della spesa pubblica, soprattutto indirizzata verso l'aumento dei salari -parliamo di aumenti seri e generalizzati; niente a che vedere con la buffonata elettorale degli 80 euro di Renzi- e degli investimenti.
Ed è riuscito, in questo modo, a far ripartire l'economia cinese, alla grande.

Torniamo all'Italia, le politiche fin qui adottate, ossia, quelle di contenimento del debito pubblico, attraverso il taglio delle spese per i servizi sociali, non hanno fatto altro che peggiorare la già profonda crisi economica, com'era facilmente prevedibile.
In questo contesto, assistiamo da parte del nostro esecutivo ad un lavoro, che è praticamente di sola propaganda e immagine, coadiuvato dai vari mass-media, ormai asserviti del tutto ai poteri forti.

L'Italia sarà obbligata nei prossimi anni a perseguire il pareggio di bilancio e a portare avanti i pesantissimi tagli che impone il fiscal compact.
Nonostante la retorica mass-mediatica, nella quale si è parlato di "austerità flessibile", Matteo Renzi, nell'incontro con il premier tedesco Angela Merkel non è riuscito ad ottenere nulla di sostanzioso.
Per cui, aspettiamoci altri tagli e stangate...