mercoledì 20 gennaio 2016

i problemi degli italiani e la mancata unità della sinistra

Da quando il Partito Democratico è finito in mano a Renzi e ha subito un ulteriore (l’ennesimo) spostamento verso destra, ossia, su posizioni ancora più in difesa degli interessi del grande capitale finanziario (multinazionali, banche) euro-americano, della Banca Centrale Europea e della NATO, s’è finalmente –con un po’ di ritardo, a dire il vero- innescato un meccanismo di fuoriuscita da questo partito di pezzi significativi e importanti, come Cofferati, Fassina e Civati.

Ciò ha contribuito –assieme ad altri fattori- a spingere gran parte di ciò che è rimasto della sinistra italiana ad una riflessione e ridefinizione di sé stessa, tentando anche di superare, per quanto sia possibile, le vecchie divisioni.
Anche perché la concorrenza della Lega di Salvini e del Movimento 5 Stelle è fortissima e il rischio è che il già vastissimo bacino elettorale che queste due forze –soprattutto il M5S- hanno risucchiato alla sinistra negli ultimi anni, si allarghi ancora di più (oppure che cresca ulteriormente l’astensionismo).

Eppure, nonostante tanti buoni propositi, anche questa volta il tavolo delle trattative tra le varie forze/soggetti di sinistra s’è rotto (Sinistra Italiana da questo punto di vista si limita ad essere un fenomeno praticamente solo parlamentare/istituzionale).
Perché?
Formalmente ciò è accaduto perché Rifondazione Comunista non ha accettato la richiesta di sciogliersi come partito.
Ma in realtà tale richiesta, peraltro assurda e incomprensibile, nasconde il rifiuto a discutere sulle questioni veramente dirimenti, a cominciare dal rapporto col PD. Soprattutto la componente istituzionale di Sinistra Ecologia e Libertà non ha intenzione di rompere col PD e di rimettere in discussione la sua permanenza in numerose giunte locali assieme a tale partito.

Ma dietro tale aspetto ce n’è un altro ancora più profondo –a mio avviso- e di cui ho trattato più volte in diversi articoli sul blog: la perdita di significato che il concetto (politico) di “sinistra” ha subito in Italia negli ultimi decenni.
Ossia, che una politica di sinistra debba sostanzialmente difendere gli interessi dei ceti popolari e dei lavoratori A DISCAPITO di quelli delle grandi lobbies economiche (politiche, militari, ecc.) è chiaro in quasi tutto il mondo. Ma non nell’Italia di oggi.
Dunque, una politica che sia veramente di sinistra è incompatibile con le misure neoliberiste e di austerity a cui ci costringe l’Europa, nonché con quelle guerrafondaie ed interventiste imposte soprattutto dagli USA.

Ora, la ricostruzione di una sinistra che si possa veramente considerare tale richiede oggi in modo imprescindibile quantomeno una discussione ed un confronto su queste tematiche.
Anche perché in Italia la situazione economico-lavorativa è devastante e peggiora sempre più (checché ne dicano le dichiarazioni, ridicole quanto propagandistiche, del nostro presidente del consiglio).
E il malessere sociale e il malcontento sono in continua crescita. Ed è a tutto questo che va data una risposta, altroché “Rifondazione si deve sciogliere”.

Anzi, dirò di più: alla luce della dura sconfitta che ha subito l’estate scorsa il pur generoso tentativo del Governo Tsipras di contenere le pesanti richieste di tagli da parte della BCE e di risparmiare al popolo greco un ulteriore misura di massacro sociale (dopo quelle già pesantissime degli anni precedenti), andrebbe messa all’ordine del giorno un’altra questione, quella dell’euro.
L’introduzione di questa valuta lungi dal realizzare una maggior integrazione economica, politica e culturale tra i popoli europei, ha prodotto, viceversa, maggiori diseguaglianze, aumento degli squilibri e maggior diffidenza e lontananza tra essi. Oltre ad un generale impoverimento di un po’ tutti.

Pur rimanendo convinto che il mero ritorno alle valute nazionali –come agitato demagogicamente dalle forze politiche conservatrici- non basterebbe di certo a risolvere molti problemi, è importante tuttavia, ragionare su come un governo (progressista) possa riassumere il controllo della propria moneta, condizione indispensabile per qualsiasi politica di rilancio economico, dell’occupazione e di benessere sociale.
Tutto ciò è di fatto impossibile con una moneta controllata dalla BCE, la quale ha, come s’è visto, una potentissima leva di ricatto per imporre a tutti i paesi le sue politiche, a prescindere dai governi e dai parlamenti eletti dai popoli e perfino –Grecia docet- dai referendum.

Ritornando alla sinistra italiana, se si vuole ricostruire e unire una forza veramente di sinistra, occorre discutere di questi temi, quindi del malessere sociale, della disoccupazione, del precariato, delle pensioni, scuola, sanità, ecc. Serve capire come venire incontro alla crescente sofferenza dei ceti popolari. E per far ciò bisogna sbarazzarsi di tutto l’impianto liberista. A cominciare dal PD, che ne è il cardine.
Il resto sono chiacchiere o becero politicismo e tatticismo.

lunedì 11 gennaio 2016

scontro tra differenti etnie/culture? E allora andiamo in fondo (e affondo)

Le rievocazioni dell’attentato del gennaio scorso alla rivista satirica “Charlie Hebdo” e ciò che è accaduto a capodanno a Colonia (che sa tanto di organizzato, ma da chi e per quale motivo?) faranno uscire di nuovo fuori –non fatico ad immaginarmelo- tutta la retorica dello scontro tra culture, ossia, tra noi bravi occidentali “crisitani”, “democratici”, “tolleranti” e i cattivi islamici, “fanatici”, “violenti”, “intolleranti”.

E da più parti sento o leggo del rifiuto, da parte di molti italiani o europei, a subire una "contaminazione" da parte delle culture degli immigrati, ed in particolare delle popolazioni islamiche.
La nostra cultura, la nostra religione, le nostre usanze e tradizioni sarebbero quelle europeo-occidentali-cristiane, e lontanissime -secondo loro- da quelle degli arabi (o di chi altro) e non ne devono essere influenzate.
Bisogna conservare la nostra cultura, la nostra religione, le nostre tradizioni!

Prendo molto sul serio queste affermazioni.
E siccome le prendo sul serio, mi aspetto un comportamento adeguato e soprattutto COERENTE.

Tanto per cominciare, d’ora in poi tutti gli italiani dovranno smettere di bere caffè (la vedo dura...)!
Il caffè, infatti, ci è stato storicamente portato dagli arabi (lo stesso termine "caffè" deriva dall'arabo).
Allo stesso modo, non dovremo più mangiare arance (e agrumi in genere), albicocche, e altra frutta, che è arrivata in Europa, portata dagli arabi. Ovviamente nemmeno i datteri.
Inoltre saranno da eliminare anche diverse spezie dalla nostra alimentazione. Di kebab nemmeno a parlarne.

Naturalmente le vacanze a Marrakesh, a Gerba o a Sharm el Sheik ve le potete scordare.

Dovremo poi, se vogliamo mantenere le nostre tradizioni, eliminare l'alcool. Alcool che in passato ci ha aiutato a curarci da tante malattie ed infezioni e a salvare numerose vite umane.
Ma ce l'hanno pur sempre portato gli arabi.
Gli alcolizzati potranno continuare a bere vino e birra. Anche se a dire il vero pure queste due bevande sarebbero nate nel Medio Oriente.

Ma fin qui la cosa è ancora fattibile.
Più complicato diventerà quando bisognerà eliminare i numeri arabi e ritornare a quelli romani (sempre che Salvini e i leghisti al nord non rifiutino pure questi).
Al posto di 2784 + 6398= 9182, infatti, occorrerà scrivere MMDCCLXXXIV + MMMMMMCCCXCVIII = MMMMMMMMMCLXXXII.
Dal momento, poi, che non potremo più utilizzare l'algebra (altro portato degli arabi), numerosi calcoli ingegneristici (e quant'altro) diventeranno impossibili.
E quindi dovremo rinunciare anche alla stessa informatica.

Va bè, ritorneremo a vivere come nel Medioevo, ma almeno manteniamo le nostre tradizioni occidentali e soprattutto la nostra religione cristiana.
Il cristianesimo infatti è occident...uhm, oddio....veramente è sorto in Palestina....ossia, nel Medio Oriente....uhm...
Niente da fare: dovremo cancellare anche il Cristianesimo e tornare a venerare Giove, Saturno, Minerva, Nettuno, Venere...

lunedì 14 dicembre 2015

Le Pen...e della sinistra. Francese e non solo

Quando si parla di “sinistra” in Italia oggi occorre sempre fare una premessa, visto lo stravolgimento che ha subito il significato di questo concetto negli ultimi decenni in diversi paesi europei e in modo particolare proprio nel Bel Paese.

Per “sinistra” –nel suo concetto politico originario e tuttora valido in quasi tutto il mondo, tranne che da noi- si intendono quelle politiche in difesa dei lavoratori (e, più in generale, dei ceti popolari) dalla grande borghesia.

Ossia, la sinistra è quella che ci dovrebbe difendere dagli attacchi di quella classe dirigente, oggi concentrata soprattutto nelle grandi banche e nelle multinazionali (o transnazionali), cioè nel grande capitale finanziario. Che è quella che in definitiva ha il potere maggiore e che domina la politica, come s’è visto in modo molto evidente l’estate scorsa con le vicende relative alla Grecia.

 
E ciò che è accaduto ora in Francia con le ultime elezioni, in cui il Front National di Marine Le Pen si è ritrovato ad essere il primo partito, ha molto a che fare con questi discorsi.

Infatti, il governo del “socialista” (altro termine completamente stravolto) Francois Hollande ha fatto l’esatto opposto di quella che dovrebbe essere in teoria una politica di sinistra.

 
In sostanziale continuità con Sarkozy, Hollande ha mantenuto intatte le politiche liberiste, dettate oggi soprattutto dall’UE e dalla BCE.

E quindi, ad esempio, nulla ha fatto per contrastare le dinamiche che stanno indebolendo e disgregando il tessuto produttivo d’oltralpe (cosa che accade anche da noi in Italia), grazie alle delocalizzazioni e alla conseguente de-industrializzazione, oltre che alla crisi economica (la quale potrebbe essere efficacemente contrastata da altre politiche economiche, che però nell’Europa di oggi sono tabù).

 
Tutto ciò si ripercuote nella società francese con la perdita di migliaia e migliaia di posti di lavoro, aumento della disoccupazione, della precarietà e in generale con il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Tali dinamiche sono poi ulteriormente amplificate dalla forte immigrazione (anche di italiani) in quel paese, fattore che oggettivamente produce una concorrenza tra lavoratori “autoctoni” e “stranieri”.

 
Hollande –come Sarkozy- ha inoltre portato avanti una politica guerrafondaia, intervenendo militarmente in diversi scenari, soprattutto nel Mali (Africa Centrale) e recentemente anche in Siria, in risposta ai recenti attentati (chissà, forse fatti apposta) a Parigi.

 
La politica del “socialista” Hollande, dunque, è stata a tutti gli effetti una politica di destra, inteso come difesa degli interessi dei grandi potentati economici.

 
Oggi come oggi i ceti popolari francesi –come quelli italiani- vivono in un clima di crescente insicurezza: dalla paura di perdere il posto di lavoro (per chi ce l’ha), alla paura di non trovarne uno, o quantomeno uno decente e non precario (per i disoccupati), e in generale dal timore di perdere sempre più quel relativo benessere di cui avevano goduto dal dopoguerra ad oggi.

A ciò si vanno ad aggiungere gli attentati terroristici e il clima di islamo-fobia (così ben alimentato dalle distorsioni mass-mediatiche), se non proprio di xenofobia, che si sta diffondendo.

 
Tutto questo mix di incertezze, unite alla mancanza, o debolezza, della vera sinistra –che in Francia è rappresentata ormai dal solo Front de Gauche- hanno prodotto un cocktail micidiale, che elettoralmente si traduce da una parte nell’aumento dell’astensionismo e, dall’altra, nel recente risultato del FN.

 
Il sentimento anti-europeo (e, mi pare, sempre più anche anti-NATO) di per sé è positivo, se consideriamo il fatto che l’Unione Europea (e soprattutto l’euro) è stata plasmata per seguire gli interessi del capitale finanziario e a danno dei lavoratori e delle popolazioni. E quindi questi ultimi se ne stanno chiaramente rendendo conto.

 
Il problema è che questi giusti sentimenti vengono strumentalizzati dalle varie forze di destra o qualunquiste, le quali non hanno –e non possono avere- un vero e proprio progetto di trasformazione sociale in senso progressista, ma si limitano ad una generica difesa nazionalistica (in un mondo che si sta globalizzando), arrivando in alcuni casi ad incitare alla guerra fra poveri (che ai ricchi fa tanto comodo). Oppur, come nel caso del M5S, ad un “governo degli onesti”, che suona tanto bene, ma è poco chiaro e lascia spazio a mille interpretazioni (per quanto riguarda le scelte politiche). Anche perché la critica ai “politici disonesti” è superficiale e non va a sviscerare a fondo il problema centrale dei rapporti economici e di classe.

 
La lotta contro le politiche liberiste (di cui l’UE e la BCE sono capisaldi) è e deve ridiventare patrimonio della vera sinistra, quella che difende i lavoratori e i ceti popolari.

E, allo stesso modo, la lotta per uscire fuori dalla NATO e dalle politiche guerrafondaie, che sono proprio quelle che in questi anni hanno alimentato il terrorismo (piuttosto che combatterlo, vedi Afghanistan, Iraq, Libia e Siria).

mercoledì 9 dicembre 2015

Venezuela. La sconfitta dei bolivariani e il ricatto economico.

Il nefasto risultato delle elezioni legislative venezuelane del 6 dicembre, in cui –per la prima volta da oltre 15 anni di rivoluzione bolivariana- ha vinto l’opposizione conservatrice, legata alle oligarchie economiche e soprattutto agli Stati Uniti e alle sue multinazionali, merita sicuramente una piccola riflessione.

Per chi non lo sapesse, intanto, ricordo che nel Venezuela dal 1999 c’è stato un governo che aveva rotto con la tradizione dei precedenti governi, i quali avevano sempre operato per sostenere gli interessi economico-politici degli USA (in piena ottica da “cortile di casa”), oltre che della locale elìte, a danno di un popolo, tenuto da sempre nella povertà, nell’emarginazione, nell’ignoranza e in gran parte confinato a vivere nelle malsane baraccopoli.

Nel ’99 ci fu la svolta: i governi “bolivariani”, capeggiati dalla ormai mitica figura di Hugo Chàvez (morto poco meno di 3 anni fa, quasi sicuramente per avvelenamento), per la prima volta –sfidando gli Stati Uniti- hanno utilizzato i proventi del petrolio, di cui il Venezuela è ricco, non per continuare ad arricchire i soliti noti, bensì per programmi sociali, finalizzati a portare istruzione, sanità, lavoro e servizi sociali, e per politiche abitative in favore dei baraccati.
Va ricordato che, proprio per questo motivo, gli USA hanno tentato in tutti i modi di sabotare tale processo, anche con un tentativo (fallito) di Colpo di Stato, nel 2002.
Morto Chàvez, a dirigere la rivoluzione bolivariana è rimasto Nicolàs Maduro, figura, certo, molto meno carismatica del primo.

Ora, con la maggioranza filo-USA e filo-oligarchia finanziaria, tale processo di grande avanzamento e conquiste popolari sembra destinato quantomeno ad una battuta d’arresto, se non arretramento (anche se il presidente del Venezuela rimane, però, per il momento sempre Maduro).

Ma perché è potuto accadere questo?
Lungi da me un’analisi dettagliata, che richiederebbe sicuramente ben altri tempi e spazi. Mi limito semplicemente a focalizzare un elemento, che è stato di sicuro determinante e centrale in questa sconfitta: il tremendo attacco economico che il Venezuela ha subito ad opera degli Stati Uniti.
In modo particolare, la politica di abbassamento del prezzo del petrolio –portata avanti principalmente per piegare la Russia, ma con scarso successo- è stata particolarmente disastrosa per un paese come il Venezuela, che campava su questa ricchezza.
E ciò s’è andato ad aggiungere ad altri interventi, come il massiccio finanziamento (sempre da parte USA) alle forze politiche dell’opposizione. E ad altri problemi, tra cui, certo, anche errori del PSUV (il partito protagonista della “rivoluzione bolivariana”).

Possiamo forse intravedere per certi aspetti un’analogia con le vicende greche di quest’estate: fatte le dovute differenze –e sono tante- fra i due casi, i grandi poteri finanziari sono riusciti a piegare quest’estate il Governo Tsipras e ora quello bolivariano, utilizzando un meccanismo simile: il ricatto economico.
 

Questa osservazione ci dovrebbe portare –molto sinteticamente- a due conclusioni.
La prima è che ad una forza rivoluzionaria (o anche semplicemente progressista nell’Europa di oggi) non basta andare al governo, per poter cambiare radicalmente le politiche liberiste.
Occorre necessariamente poter incidere sui meccanismi economici, quindi bisogna aver potere sulle leve economico-finanziarie del paese, altrimenti il ricatto economico finirà inevitabilmente per snaturare o sconfiggere le politiche progressiste.
Certo, ciò verrebbe subito tacciato di “totalitarismo”, ma evidentemente il “totalitarismo” già esiste oggi, se è vero –e lo stiamo amaramente constatando- che una forza politica che vince le elezioni e va a governare, è poi impossibilitata a procedere a causa dei ricatti economici dell’elite finanziaria.

La seconda è che agire a livello nazionale, almeno in un paese di piccole o medie dimensioni, non è sufficiente per poter scardinare meccanismi che sono quantomeno continentali. E questo l’abbiamo visto soprattutto quest’estate in Grecia, dove un governo che ha provato a sfidare i potentati bancari europei, s’è ritrovato isolato e quindi a dover cedere di fronte alla Banca Europea.

In America Latina per la verità il Venezuela non è proprio isolato, dato che le tendenze progressiste degli ultimi 10-15 anni hanno coinvolto –in modo diverso- diversi paesi importanti (Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, Uruguay). E si sono creati e sviluppati importanti organismi economici ultranazionali (Alba, Mercosur) volti a rafforzare i legami tra i paesi dell’America Latina.
Ma una vera e propria integrazione del continente è ancora lontana (la stessa Argentina ha recentemente visto la sconfitta elettorale della Kirchner e il ritorno al potere dell’oligarchia filo-americana).

Ma intanto, nel silenzio mediatico, altre situazioni stanno cambiando. Pochissimi sanno che nel Burkina Faso (in Africa Centrale, per chi non lo sapesse) è forse in atto una seconda rivoluzione, dopo quella degli anni 80 di Thomas Sankara, repressa a suo tempo dai francesi. Forse. Ma la situazione è da seguire.

lunedì 2 novembre 2015

Marino, un eroe borghese. Molto, molto borghese!

Se l’ormai ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, quando venne eletto, avesse avuto nel suo programma quello di far discutere di sé, bisogna proprio dire che ci è riuscito alla perfezione.
Mai sindaco di Roma è stato così “chiacchierato” come lui. E in soli due anni di governo.

Marino è stato capace come forse nessuno di dividere il campo in sostenitori e iper-critici.
Però, come accade spesso nella politica italiana degli ultimi decenni, molti dei giudizi –positivi o negativi che siano- sono strumentali e dettati da interessi o quantomeno da superficialità.
Si è arrivati al punto che all’(ex) sindaco sono state attribuite le responsabilità di tanti mali che la capitale si porta appresso da decenni.

La mia, non vuole certo essere una difesa di Marino.
Ma, arrivati a questo punto, sarebbe il caso di elencare (molto sommariamente) pregi e difetti dei suoi due anni da sindaco di Roma.

Pregi:

Ignazio Marino è stato –da 20 anni a questa parte- sicuramente il primo sindaco ad aver provato a contrastare una serie di lobbies affaristiche (se non criminali) che governano di fatto Roma da tempo.
Non dimentichiamoci che gli ultimi sindaci (Rutelli e Veltroni) erano stati complici di un sistema di gestione corrotto e fraudolento di servizi pubblici, noto ormai come “Mafia-capitale” (Buzzi, Carminati, Oldevaine, ma anche palazzinari, come Parnasi, ecc.). Con Alemanno, poi, tale sistema di malgoverno era arrivato a toccare vette altissime, come dimostra Parentopoli e magagne varie (tra le quali la libertà per il consorzio Metro C di continuare a chiedere ed ottenere finanziamenti, senza alcun vincolo temporale per i lavori).

Numerosi sono stati gli interventi di Marino volti a contrastare gran parte di questo malaffare. Tutto il linciaggio mass-mediatico a cui è stato sottoposto il sindaco-chirurgo è scaturito proprio da ciò. Ossia, dall’aver calpestato i piedi alle lobbies affaristico-mafiose (non ci dimentichiamo che il quotidiano romano per eccellenza, Il Messaggero, appartiene a Caltagirone).
Sotto questo punto di vista, Marino è da considerarsi una figura se non eroica, quantomeno coraggiosa. E gliene va dato merito.

Difetti:

Personalmente credo poco alla retorica dell’eroismo, a maggior ragione quando si gestisce una città come Roma, molto eterogenea per condizioni economiche, sociali, lavorative ed etniche, e con una popolazione di oltre 3 milioni (se consideriamo anche i pendolari che vi lavorano, gli studenti fuorisede e altri non residenti).

Quindi –sinteticamente- se uno contrasta delle lobbies, deve per forza di cose appoggiarsi ad altri settori sociali ed economici.
A chi si è appoggiato Marino?
Non è chiaro esattamente quali sono stati i gruppi di potere che l’hanno sostenuto, ma posso dire con sicurezza a chi Marino NON s’è assolutamente appoggiato, anzi ha combattuto (assieme alle lobbies affaristiche): i lavoratori, i ceti popolari, gli abitanti delle periferie degradate.

Numerosi sono stati i tagli ai servizi fondamentali, al salario di migliaia di lavoratori. Le assunzioni sono state bloccate, mentre diversi servizi indispensabili (tipo il trasporto pubblico), soffrono di una carenza di personale spaventosa.
Per non parlare della vergognosa uscita di Marino contro i lavoratori del Colosseo, “colpevoli” di aver voluto fare un’assemblea (diritto basilare; e comunque regolarmente annunciata con giorni d’anticipo).

Allo stesso modo, il sindaco, proseguendo la politica dei suoi predecessori, ha trascurato le periferie –ossia, i quartieri dove abitano soprattutto i ceti popolari- e s’è preoccupato soltanto di abbellire la vetrina del centro storico.

Conclusione:

Nonostante tutta la canea che è stata fatta intorno a Marino, su un punto egli è stato in perfetta continuità con i sindaci che l’hanno preceduto: nell’essere stato un sindaco borghese e nel rappresentare gli interessi generali di quella classe sociale.
Le complicazioni nascono dal fatto che però la borghesia è tutt’altro che un blocco unito. Essa si divide, intanto, in piccola, media e grande borghesia. E vi sono feroci conflitti di interesse non solo fra questi tre spezzoni di borghesia, ma anche all’interno di ciascuno di questi settori.
E questo spiega tutte le polemiche e i contrasti che ci sono stati intorno alla Giunta Marino.

Sono lontani i tempi in cui Luigi Petroselli poteva governare Roma, facendo anche gli interessi dei ceti popolari (e risanando molte borgate dall’emarginazione e dalla criminalità). E senza far pagare il costo ai lavoratori.
Certo, era bravo lui, ma era soprattutto il contesto politico-sociale ad essere diverso: allora c’era il PCI, i lavoratori erano molto più organizzati e combattivi e facevano valere i loro interessi.
Quanti passi indietro abbiamo fatto in Italia da allora…

domenica 25 ottobre 2015

Guerra all'Isis. La Russia fa sul serio

Ufficialmente è un anno che gli USA sono in guerra contro l'Isis. Con risultati trascurabili, per non dire nulli.
Tra l’altro, un paese che è stato capace di scoprire l'acqua su Marte e che dispone di un controllo satellitare potentissimo e estremamente dettagliato, non è stato tuttavia in grado di accorgersi delle colonne di Toyota dei miliziani dell'Isis che avanzavano nel deserto (nel deserto!) verso Palmira o verso altri siti.
Ci doveva pensare la Russia.


Chiamata dal Presidente Assad (eletto dal suo popolo con l’88% dei voti), l'aviazione russa nel giro di tre settimane ha distrutto decine e decine di centrali operative, di campi di addestramento, di depositi di armi e munizioni e di roccaforti dello "Stato Islamico" e di Al Nusra (ossia Al Qaeda, gli stessi presunti attentatori delle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, e che, non si sa bene per quale motivo, adesso gli USA li considerano l'opposizione "moderata" ad Assad e da sostenere).

L'esercito siriano, grazie a questi interventi, sta riprendendo a poco a poco il controllo di vaste aree nelle province di Hama, Latakia, Idlib, Homs, Aleppo e nella stessa Damasco.
I miliziani tagliagole dell'Isis sono in ritirata un po' dappertutto nel territorio siriano. Numerosi di loro sono fuggiti soprattutto in Turchia (guarda caso...) e si moltiplicano i casi di diserzione.

Un simile successo in meno di un mese crea un fortissimo imbarazzo agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali, Francia in primis.
Anzi, più che imbarazzo: sta smascherando –di fatto- il doppio gioco di paesi, i quali da una parte si vantano tanto di combattere il terrorismo e dall’altra parte il minimo che si possa dire è che lo lasciano agire indisturbato.
L’obbiettivo dell’Occidente, infatti, è l’abbattimento del cosiddetto “regime di Assad”, colpevole di non piegarsi ai diktat degli USA.

Naturalmente la reazione dei paesi della NATO non s’è fatta attendere: a livello mass-mediatico all’inizio s’è subito detto –senza dimostrarlo- che i bombardamenti dei russi avrebbero colpito la popolazione civile, e in seguito è caduto il silenzio-stampa e della Siria e dell’Isis non se ne parla più.

Ma l’intervento di Putin ha una valenza che va ben al di là della Siria e della sconfitta dell’Isis (e di Al Nusra): diversi paesi del Medio Oriente –fra cui Iraq ed Egitto- ora incominciano a sentirsi più protetti da parte della Russia, a scapito degli americani, e stanno sempre più rafforzando i loro legami con Mosca.
In pratica, gli equilibri geo-politici nel Medio Oriente stanno mutando a favore della Russia e a sfavore degli Stati Uniti.
E’ definitivamente tramontato il periodo –seguito alla fine dell’Unione Sovietica- in cui gli USA erano rimasti l’unica superpotenza mondiale e potevano fare il bello ed il cattivo tempo un po’ ovunque.

Questo fatto, in sé, è positivo.
Il problema è che potrebbe portare anche a conseguenze tutt’altro che positive: Washington, infatti, non si lascerà soffiare via il suo primato politico-militare così facilmente e quindi corriamo il serio rischio che gli USA scatenino una guerra di portata e di intensità maggiore di quelle degli ultimi anni.
E l’Italia, che fa parte della NATO e che ha tuttora i suoi militari in Afghanistan, potrebbe benissimo esserne coinvolta. Anche perché tra l’altro nel nostro territorio esistono qualcosa come 90 ordigni nucleari USA.

Mai come ora ci sarebbe urgente bisogno di un forte movimento pacifista nel nostro paese, che porti in piazza milioni di persone.
Ma gli italiani sono troppo impegnati a controllare gli scontrini di Marino…

martedì 22 settembre 2015

profughi verso l'Europa e campagne mediatiche

Nell’ultimo mese abbiamo assistito ad una forte campagna mediatica sul problema dei profughi, che fuggono dalle loro terre (Africa, Medio Oriente) per approdare nella “ricca” Europa.
Personalmente ho imparato a diffidare di queste campagne mediatiche, a volte martellanti, che di solito ci presentano un problema -che magari esiste da decenni- come se fosse un’emergenza degli ultimi tempi, quando non un pericolo urgente.
Per poi, dopo qualche settimana, sparire dai riflettori, dandoci la sensazione quasi che il problema non esista più.

Innumerevoli sono state negli anni scorsi, ad esempio, le campagne sulla criminalità, specie sotto le elezioni. Fenomeno presentato di modo che incutesse terrore, nonché richiesta di “sicurezza”.
E poi, passate le elezioni, inspiegabilmente i delinquenti si danno una calmata e, anzi, sembrano addirittura scomparire.
tesso discorso sui pedofili e tanto altro ancora.

La campagna mediatica recente sui profughi che invadono l’Europa presenta numerosi limiti.
Forse l’unico aspetto positivo di questa, è che dovrebbe aver chiarito a tanti il fatto che queste sono, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, persone disperate che fuggono dalla guerra, o comunque da condizioni di vita impossibili (tranne i razzisti incalliti, ma, si sa: c’è gente che ancora oggi è convinta che la Terra sia piatta).

Però, a parte quello, siamo in presenza della solita campagna basata sulla disinformazione, ma –attenzione!- si tratta di una disinformazione “intelligente” e oserei dire subdola.
Intanto, infatti, c’è un tentativo di ridare un’immagine “buona” al governo tedesco della Merkel, come quello che accoglie “generosamente” i profughi.
E ciò dopo che a luglio ha mostrato, contro la Grecia, il suo volto più autentico, quello di affamatore dei popoli, per conto delle banche e del capitale finanziario, in genere.
Come se tutta questa ondata di stranieri disperati –e quindi disposti a lavorare per salari ridicoli- non verrà poi utilizzata per ricattare i lavoratori tedeschi (e non solo).

Un altro elemento di disinformazione è l’insistenza nel classificare i profughi come “siriani”.
In realtà tra i profughi che arrivano in Europa c’è di sicuro una forte componente di siriani. Ma ci sono anche numerosi iracheni, afghani, libici, e di tanti altri paesi.
Solo che in Afghanistan, in Iraq e in Libia, l’Occidente è intervenuto direttamente, invadendo quei paesi, per cui parlare dei profughi di quei paesi significherebbe ammettere il fallimento (per non dire l’orrore) di quelle guerre volute e condotte dai paesi sedicenti “democratici”.

Viceversa, in Siria il governo di Assad è ancora in piedi, nonostante l’enorme sforzo economico (e non solo) che USA, Arabia Saudita, Turchia (che fa parte della NATO), ma anche Francia e altri hanno profuso per liquidarlo, finanziando, armando e appoggiando formazioni quali l’ISIS e Al Nusra.
Quindi, insistere sul fatto che si tratta di profughi “siriani” fa sì che la gente sia portata a pensare che il problema stia nel governo di Assad –guarda caso, uno dei pochissimi nella zona a non piegarsi ai diktat statunitensi- e sia poi disposta ad accettare eventuali futuri interventi militari, presentati “contro il terrorismo”.
Come se non fossero stati proprio gli interventi militari occidentali degli anni scorsi (Afghanistan, Iraq, Libia) ad aver alimentato le ondate di profughi negli ultimi decenni.

 

Un altro elemento ancora di disinformazione, rispetto alla campagna mediatica sui profughi, sta nel presentare il problema, mettendo in contrapposizione le politiche “buoniste” di accoglienza nei loro confronti con quelle di chiusura (emblematico il muro issato dall’Ungheria fascista di Orban) e di presunta difesa del popolo autoctono, dagli “invasori”.

In realtà, riuscire a contenere l’imponente flusso di immigrati-profughi che arrivano nei “paesi ricchi” dai “paesi poveri” è, alla lunga, praticamente impossibile. Qualunque tipo di politica si metta in atto.
Anche discorsi del tipo “aiutiamoli a casa loro” si rivelano solo degli slogans, perché di solito non abbiamo ben chiaro che cosa veramente accade “a casa loro”.

Il discorso sarebbe lunghissimo, perché qui andiamo a cozzare con un fenomeno, che è poi la vera causa di fondo di questi imponenti movimenti umani di disperati in cerca di un luogo dove poter sopravvivere: il NEO-COLONIALISMO.
Ossia –sinteticamente- lo spolpamento, da parte dei paesi occidentali (e soprattutto delle loro multinazionali) dell’economia e delle risorse di tanti paesi africani e asiatici.
I quali rimangono solo formalmente indipendenti, ma hanno dei governi fantocci nelle mani dei potentati finanziari euro-americani.
Nonché il proliferare di guerre e conflitti apparentemente “locali”, ma quasi sempre finanziate dai paesi ricchi e dai loro colossi finanziari, interessati ad accaparrarsi le materie prime, i mercati e in ogni caso a vendere armi.

Di fronte a dinamiche di enorme portata come queste ci sentiamo impotenti.
Ma, in realtà, nel nostro piccolo, qualcosa possiamo fare.
E il primo passo per contrastare le politiche di sfruttamento e guerrafondaie, che portano con sé tali dinamiche migratorie massicce, è quello di fare un piccolo sforzo per superare diffidenze e ostilità e capire che l’immigrato non è un nemico, bensì una vittima –come spesso siamo anche noi, ma loro molto di più- delle dinamiche economiche dominanti, ossia, quelle capitalistiche.
E rendersi conto che gli immigrati possono, anzi, devono essere dei nostri alleati per contrastare chi sta iniziando ad affamarci anche a noi, con le politiche liberiste dell’austerity.