martedì 7 luglio 2015

Grande vittoria del popolo greco e miserie italiane.

Non credo che serva spendere troppe parole sullo strepitoso risultato del referendum del 5 luglio in Grecia, grazie al quale il popolo ellenico, a netta maggioranza, ha rigettato le politiche di austerity –ossia, di impoverimento sociale- imposte in modo ricattatorio dalla Troika (FMI, BCE, UE).
E’ la prima volta che un governo e un popolo in Europa osa sfidare lo strapotere del capitale finanziario euro-atlantico.

Staremo a vedere come si evolveranno i fatti (ma dobbiamo comunque tenere presente che non si trattava di un referendum pro o contro l’euro) e a cosa porteranno le inevitabili trattative.
Ed è ancora prematuro anche fare una valutazione, ad esempio, sulle strane ed improvvise dimissioni del Ministro Varoufakis.
Ma quello che è importante cogliere, io credo, è che grazie al Governo Tsipras e ai risultati del referendum, sono mutati i rapporti di forza: ora l’UE non potrà più imporre i suoi programmi come prima, ma è costretta a negoziare. Sempre che voglia farlo.
Ma, nel caso contrario, dovrà assumersi la responsabilità politica di cacciare la Grecia dall’Europa.

 

Ora veniamo in Italia.
Quando si parla di "miserie italiane", la prima cosa che viene in mente è il Governo Renzi e il Partito Democratico.
Non mi dilungo su questi, la cui critica è per me scontata. Ho sempre criticato il PD, fin dal momento della sua nascita (ossia, quando c'era Veltroni) e non ho certo meno motivi per farlo ora. Renzi e il PD li considero dei burattini al servizio delle banche e multinazionali (e delle politiche guerrafondaie USA).

Ma due paroline vanno spese anche sul malcostume -tipicamente italiano- di "salire sul carro del vincitore". La grande vittoria e il coraggio del Governo Tsipras e di Syriza, fanno sì che parecchi personaggi -in chiara ricerca di pubblicità- vadano ad Atene a festeggiare la vittoria.
Civati, Fassina, Grillo e Vendola, dopo aver fatto per anni una politica quantomeno ambigua –e comunque NON in sintonia con Syriza- ora vanno tutti ad Atene, sperando di riscuotere pubblicità –grazie alla complicità dei vergognosi media italiani, che fanno il loro gioco- e qualche voto in più.

Pippo Civati e Stefano Fassina fino a pochi mesi fa hanno contribuito, votandole, alle peggiori leggi e misure liberiste e di austerity, in linea con la Troika (Jobs Act e Riforma Fornero, tanto per dirne due) e sono stati dirigenti per 7 anni di un partito, il PD, che è quanto di più filo-BCE e filo-atlantico non si possa immaginare.

Beppe Grillo e il M5S, anche se agli occhi di molti italiani sprovveduti possono apparire vicini a Syriza, dato che anche loro sembrano contestare il potere e l’arroganza dell’Europa delle banche, sono in realtà molto, molto distanti da questa.
A parte il fatto che il M5S è per l’uscita dall’euro, mentre Syriza non lo è (anche se ovviamente deve valutare pure questa possibilità), Syriza è un partito (partito!!) espressamente di sinistra (la “A” di SyrizA sta per Aristera= sinistra). Inoltre è contrario alla xenofobia e ha un programma e una collocazione ben definiti.
Viceversa, il M5S parla a 360°, dice tutto e il contrario di tutto, parla di “onestà” (che in politica non vuol dire assolutamente nulla, potendo essere interpretabile in tanti modi diversi) e fa tanti bellissimi discorsi, ma poi non è chiaro il suo programma e soprattutto la sua collocazione politica. Sta di fatto che in Europa ha scelto di stare con le destre conservatrici e xenofobe.

Niki Vendola: il suo “errore” (e mi tengo moderato nei giudizi) più grave è stato quello di aver voluto far aderire SEL al PSE. Lo stesso slogan “con Tsipras, ma non contro Schulz” –slogan che rifletteva un chiaro scontro interno- appare oggi in tutta la sua ridicolaggine.
Meno male che molti compagni di SEL non hanno accettato l’entrata nel PSE, dimostrandosi assai più saggi del loro segretario.

L’unico personaggio veramente degno di stare ad Atene e di festeggiare la vittoria dei “NO” al referendum, è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista.
Il PRC in questi anni ha sempre espresso, in modo coerente e senza tentennamenti, una politica molto simile a quella di Syriza. Inoltre è stato il partito che ha promosso alle ultime elezioni europee la Lista Tsipras, che in Europa sta nello stesso gruppo con Syriza (GUE/GNL).

Anche per questo motivo i telegiornali e i quotidiani italiani hanno snobbato il PRC e Ferrero quasi del tutto.
Infatti, la miseria italiana, prima ancora che essere dei politici, è di tutto il sistema economico e mass-mediatico. Il quale non ha alcun interesse a cambiare le cose, ma solo a far pubblicità ai ciarlatani, ai voltagabbana e ai personaggi ambigui.

mercoledì 1 luglio 2015

Grecia: lotta di classe. Per loro e anche per noi.

Come dovrebbe essere noto, in Grecia il Governo Tsipras ha indetto per il 5 luglio prossimo un referendum per far esprimere il popolo greco sulle misure che la Banca Centrale Europea vuole imporre al paese, per ripagare il debito.

Va precisato che non si tratta di decidere l'uscita di Atene dall'euro, come qualcuno pensa. Syriza (il principale partito al governo) non ha mai detto di voler uscire dall'euro. Anzi, contrariamente a ciò che si vuol far credere, è intenzionata a ripagare il suo debito. Solo che il governo ellenico intende decidere sovranamente (ne avrebbe tutto il diritto) in che modo ripagarlo, ossia, dove recuperare le risorse per farlo.
E -per la prima volta- intende far pagare chi non l'ha mai fatto sinora, e cioè i ricchi e i grandi evasori fiscali (armatori in primis). Questi sono rimasti sostanzialmente intoccati dalle ben 5 manovre “lacrime e sangue” che ha subito la Grecia negli scorsi anni e che hanno ridotto vasti strati della popolazione a livelli di miseria che da decenni non si vedevano in un paese europeo.

Ebbene: è stato precisamente questo programma che all'Europa delle banche non è andato giù.
Il che dimostra come alla BCE non interessa tanto che la Grecia saldi il suo debito, quanto imporre a tutti i popoli (la Grecia funge da cavia) le politiche liberiste e di austerity, fatte di bassi salari, ricattabilità e debolezza dei lavoratori, pensioni da fame e privatizzazione della sanità e dei servizi sociali.

Va chiarito anche un altro equivoco: la Grecia NON si trova in queste condizioni perché in passato il suo Stato avrebbe fatto spese eccessive, o –come si dice- perché avrebbe truccato i cuoi conti pubblici (cosa che non doveva essere poi difficile da scoprire a suo tempo; e pare che anche altri paesi -tra i quali Francia e Germania- l’abbiano fatto).
Le spese statali della “virtuosa” Germania sono –in percentuale sul PIL- assai maggiori di quelle dell’Italia, a sua volta superiori di quelle elleniche.

Certo, la Grecia ha, di suo, un’economia storicamente debole.
Ma l’Europa unita non era stata a suo tempo presentata proprio come un’opportunità anche e soprattutto per i paesi deboli? Una vera unità europea non dovrebbe favorire investimenti (controllati, certo; nessuno parla qui di sovvenzioni a pioggia) diretti proprio alle zone più arretrate per far sviluppare un po’ tutte le economie, e realizzare, così una VERA integrazione?
Tra l’altro una politica di investimenti in Grecia (e non solo) darebbe un notevole contribuito a sviluppare un’economia tale, che ora Atene non avrebbe alcun problema a ripagare il debito.

 

Ma il problema è che l’Unione Europea è rigorosamente liberista, ossia, strettamente dipendente dalle leggi del capitalismo. Per cui, gli Stati non devono investire.
Lo dovrebbero fare i privati, ossia, i capitalisti, ma dato che a questi, specie in tempi di crisi economica, gli investimenti spesso non convengono -e quindi non si fanno- essi cercano di realizzare i loro bei profitti rivolgendosi alle speculazioni finanziarie. Le quali si alimentano –guarda caso!- proprio sui debiti sovrani.

Dunque, alla BCE (organismo non eletto dai cittadini, ma quello che di gran lunga ha il maggior potere nell’area-euro) interessa solo far fare profitti alle banche, sfruttando il debito pubblico e riducendo vasti strati di popolazione senza lavoro, senza pensioni, senza servizi e in miseria.
Il popolo ellenico è da considerarsi, sotto quest’aspetto, semplicemente come apripista: poi toccherà agli spagnoli, ai portoghesi, agli italiani e altri ancora.

Il debito pubblico o sovrano, tra l’altro, non è un fenomeno così anomalo e negativo come ci vogliono far credere. In realtà il debito pubblico ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’economia capitalistica. Non a caso, lo stesso Karl Marx ne parla più volte nei suoi libri sull’economia.

Tornando alla Grecia, staremo a vedere ciò che uscirà dal referendum del 5 luglio prossimo. Vedremo se si troverà comunque alla fine un accordo, oppure se Atene uscirà dall’euro.
Ma la cosa importante da capire è che la battaglia che stanno portando avanti i greci ha un fortissimo valore anche per noi: se il popolo greco vincerà sui ricatti europei, anche per noi italiani in futuro sarà meno dura; se loro perdono, aspettiamoci presto misure “lacrime e sangue” anche da noi.

Ma forse c’è anche un’altra speranza: i BRICS (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Sembra infatti che soprattutto la Russia e la Cina siano intenzionate ad intervenire, finanziando la Grecia e facendo investimenti (cosa che avrebbe dovuto fare un’Europa veramente unitaria).
Verificheremo se e come accadrà e con quali esiti. L’importante è che il mondo sta cambiando e la tirannia del FMI-BCE-Commissione Europea (la “troika”) stia sempre più perdendo il suo monopolio, oltre che credibilità.

E, determinante sarà intanto la vittoria del “NO” al referendum greco del 5 luglio.

lunedì 1 giugno 2015

Roma, il problema non è solo Marino (ma anche lui)

Inizio con una premessa doverosa: non sono affatto contento dell’operato complessivo del sindaco di Roma, Ignazio Marino, e non intendo certo giustificarlo.
Diciamo che Marino, più o meno come i sindaci precedenti, sta dimostrando di agire soprattutto per favorire i classici “poteri forti” della capitale.
Ma non è che mi fossi mai illuso che potesse fare diversamente. Infatti alle ultime elezioni comunali l’ho votato solo al ballottaggio e solo per non far rivincere Alemanno, il quale ultimo ritengo sia stato capace di essere anche peggio dell’attuale sindaco.

Ma più che al paragone con Alemanno, il sindaco Marino sembra –apparentemente- sfigurare ancor di più nei confronti di Veltroni.
In realtà se quest’ultimo è stato a suo tempo eccessivamente osannato (si arrivò addirittura a parlare di un molto discutibile “modello Roma”), l’attuale primo cittadino di Roma viene, secondo me, criticato in modo un po’ troppo esagerato.

A dir la verità è difficile fare un paragone tra Veltroni e Marino, dato che è cambiata la fase politico-economica: le politiche nazionali di austerity e di riduzione del debito pubblico hanno imposto pesanti tagli, in questi ultimi anni, da parte dello Stato Italiano nei confronti degli Enti Locali, e quindi anche del Comune di Roma.
Ossia, tradotto in parole semplici: se oggi ci fossero Rutelli, Veltroni o Alemanno, con tutta probabilità si comporterebbero in modo simile a Marino.

Il quale sta effettuando tagli su parecchi servizi fondamentali, come i trasporti (!), la cultura, gli asili-nido e tanti altri servizi, il che porta delle conseguenze significative (negative) per quanto riguarda l’occupazione.
Ma su questo Marino è in linea con Renzi, il quale a sua volta è in linea con le politiche europee di tagli al bilancio. Tutto parte dall’Europa (delle banche e delle multinazionali). E’ perfettamente inutile attaccare Marino se poi non si mettono in discussione anche le politiche europee di austerity.

Ma i grossi nodi per il futuro sono due: le privatizzazioni e la cementificazione.
Oggi il mondo dell’imprenditoria –sempre affamato di profitti- sta puntando sempre più alle privatizzazioni di quei settori, nei quali il profitto è massimo, dato che operano in un regime di monopolio e gli investimenti limitati.
Ossia, sui servizi ai cittadini: acqua, luce, sanità, trasporti, scuole, ecc.
Non è un caso che Caltagirone, il noto palazzinaro, sta sempre più puntando su ACEA.

Ma ormai dovremmo aver fatto esperienza di che cosa sono le privatizzazioni.
Negli anni ’90 in Italia c’era il mito del privato e del mercato e si pensava che questi avrebbero –grazie agli investimenti e alla concorrenza- migliorato i servizi, e magari anche abbassato i prezzi.
L’esperienza di Alitalia, della Telecom, dell’ILVA, delle FS e tanto altro hanno ampiamente dimostrato che privatizzazione significa soprattutto enorme perdita di posti di lavoro.
Ma tutto questo miglioramento dei servizi non s’è visto. E non s’è visto nemmeno l’abbassamento dei prezzi, anzi.

Inoltre, “Mafia-capitale” ha dimostrato che la corruzione e gli sprechi arrivano ai massimi livelli non quando un servizio è gestito direttamente dal pubblico, bensì quando viene appaltato ai privati, cosa che oggi da noi è diventata la norma.
Anzi, molto del degrado e dell’inefficienza dei servizi della capitale è dovuto proprio alla gestione speculatoria dell’emergenza, che finisce per essere una grande fonte di introiti per qualcuno, il quale quindi non ha alcun interesse a risolvere i relativi problemi.

A Roma avanza (tanto per cambiare) la cementificazione. Con tutto ciò che comporta: abusivismo, dissesto idrogeologico, inquinamento, danni ambientali ed ecologici.
Nonostante tutto ciò, l’espansione edilizia è lontana dal risolvere il problema abitativo, che opprime migliaia di famiglie, ed è invece finalizzata solamente alla speculazione.

 

Roma sarebbe veramente una città meravigliosa, se iniziasse ad essere gestita non più per gli interessi di una casta di pseudo-imprenditori affaristi e speculatori senza scrupoli, ma in funzione dei cittadini di ogni estrazione sociale e in un’ottica di efficienza e di sostenibilità.
E’ chiaro che non possiamo aspettarci questo né da Marino, né da Alemanno, né da tutti quelli che rappresentano gli interessi delle cricche affaristiche (tipo Marchini).
E a maggior ragione non possiamo aspettarcelo, finché l’Italia continuerà a rimanere succube delle politiche liberiste e di austerity che ci impone l’Europa.

N.B.
Il discorso è necessariamente ultra-sintetico, ma per chi voglia approfondire l’argomento esiste un’interessante analisi in un documento (Roma 2030) che linko:

sabato 23 maggio 2015

Palmira: quando gli interessi geopolitici prevalgono sulla cultura


Credo che tutti abbiano quantomeno sentito parlare di Palmira.
Città antichissima, che si trova nell’attuale Siria e le cui rovine sono state dichiarate dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

Ma, per chi fosse a digiuno di storia e archeologia, un accenno non guasta.
Palmira è una città antichissima, che si trova in un’oasi del deserto siriano, ed è stata particolarmente fiorente e ricca sotto l’Impero Romano. Noto è il regno (effimero) della regina Zenobia, in cui Palmira s’era separata dall’impero, e aveva grandi ambizioni di conquiste, ma venne poi riconquistata dai romani.

Oggi rimangono le rovine di quella città antica. La quale, essendo stata abbandonata nel medioevo, oggi rimane semi-intatta, quasi una sorta di Pompei siriana.

Se non ché, oggi la furia devastatrice dell’Isis (lo “Stato Islamico”), minaccia di distruggere queste rovine. Se lo facesse, sarebbe una perdita inestimabile per il patrimonio storico-artistico mondiale, paragonabile forse alla perdita del Colosseo.
A difendere il sito oggi è soltanto l’esercito regolare siriano (quello fedele al Presidente Assad, per intenderci).

Al momento in cui scrivo non è chiaro se la città di Palmira sia stata del tutto conquistata dai mercenari cosiddetti “islamici”, o se l’esercito siriano mantiene, almeno in parte il controllo della città.
Dalle notizie che arrivano, sembra che alcune colonne antiche siano già state distrutte dall’Isis.
Intanto, però, l’esercito siriano ha provveduto a traslocare molte statue e materiali importanti del sito archeologico in zone sicure.

Dunque, gli stessi soggetti che l’Occidente (USA ed Europa) negli anni scorsi ha chiamato “combattenti per la libertà”, ed ha finanziato e armato (assieme agli alleati dell’Occidente, Arabia Saudita e Turchia), per tentare di rovesciare il regime siriano, colpevole di non assecondare gli interessi degli USA e di Israele.
Gli stessi soggetti -dicevo- ora, dopo aver fatto parlare di sé decapitando prigionieri a più non posso, ora sembra vogliano distruggere interi siti archeologici, come Palmira. Noncuranti nemmeno del fatto che sia stata –ricordiamolo- dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

Sia chiara una cosa: se i miliziani dell’Isis dovessero distruggere tale patrimonio, la RESPONSABILITA’ PRINCIPALE RICADREBBE SUGLI STATI UNITI, SU ISRAELE E SUI PAESI EUROPEI, oltre che sull’Arabia Saudita e sulla Turchia (comunque alleati dei primi).

L’Isis è a tutti gli effetti una creatura della CIA.
Ma non solo: gli Stati Uniti potrebbero benissimo liquidare l’Isis in breve tempo (non hanno nemmeno carri armati, girano con le Toyota). E avrebbero potuto farlo nei mesi scorsi, senza grossi problemi. Ma non lo stanno facendo.
Evidentemente nei loro calcoli geopolitici, la perdita di importantissimi siti archeologici (oltre che di milioni di persone) sono prezzi da pagare pur di mantenere il controllo su una zona strategica come il Medio Oriente.

martedì 12 maggio 2015

quando il potere si finge "popolare" (ma non lo è)

Nel lungo corso della storia le classi dominanti e il potere politico (le due cose non sempre coincidono) hanno sempre cercato di distinguersi dalla gente comune, dal popolo.
L’hanno fatto con le loro residenze, con le loro tombe, nel loro modo di vestirsi, di mangiare, di parlare, nelle loro abitudini, ecc.
E così abbiamo le piramidi faraoniche, i palazzi imperiali, i castelli, le regge alla Versailles, le sontuose ville, il lusso, lo sfarzo, ecc.
Pure il potere religioso non è stato esente da questo comportamento, costruendo grandi templi, moschee, basiliche e cattedrali, le quali avevano un’importante funzione in termini di psicologia politica: quella di far sentire la gente comune “piccola”, umile e debole nei confronti di Dio, e –più concretamente- nei confronti delle gerarchie clericali.
Addirittura si è arrivati a dire che l’aristocrazia avesse “sangue blu”, come a dire che i nobili erano diversi dal popolo anche fisiologicamente.

Questa tendenza a distinguersi dal popolo è iniziata gradualmente ad entrare in crisi tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900.
La lotta di classe, sempre più forte ed organizzata, la nascita delle democrazie di massa e lo sviluppo dei partiti socialisti, popolari e comunisti ha, a poco a poco, convinto il potere a mutare atteggiamento. O almeno alcuni settori del potere, quelli più esposti apertamente all’opinione pubblica.

Oggi la tendenza dei leaders è quella di apparire sempre più come persone “del popolo”.
L’Italia vanta ormai una certa tradizione in questo campo, avendo espresso un pioniere di tale tendenza, ossia Benito Mussolini.
Il “duce”, nelle sue uscite pubbliche, si sforzava di presentarsi in modo molto differente dal classico borghese intellettuale e “perbene”, ostentando un’immagine infarcita di atteggiamenti un po’ militareschi e un po’ popolari rozzi, fino ad arrivare al noto “me ne frego!” (poi, certo, aveva scelto come sua residenza l’aristocraticissima Villa Torlonia…quando si dice la coerenza!).

Per rimanere in Italia, lo “scimmiottamento” di atteggiamenti “popolari” è riesploso –non a caso- dopo il famoso ’89, con l’avvento della Seconda Repubblica.
Invano si cercherebbero espedienti simili in quei grandi dirigenti politici –Berlinguer, Pertini, Togliatti, Longo, Nenni (ma anche De Gasperi, Moro, Andreotti), ecc.- i quali rappresentavano veramente i lavoratori e i ceti popolari. Ma questi erano a capo di partiti radicati nel popolo e non avevano bisogno di scimmiottarlo.

Tornando alla II Repubblica, l’esempio più significativo tra i leaders politici che imitano comportamenti “popolari” è stato sicuramente quello di Silvio Berlusconi. Le sue quotidiane battute, i gesti (anche volgari), perfino le sue gaffes, facevano parte di una tecnica comunicativa ben studiata, tale da farlo apparire come un uomo “del popolo”, e quindi una persona spontanea e distante dalla “casta” dei politici di professione (considerati tout-court “falsi”). E quindi un uomo concreto e vicino agli interessi del popolo.

Un altro maestro nel campo è stato Umberto Bossi, su cui è inutile spenderci troppe parole. Stesso discorso per un comico come Beppe Grillo, tra l’altro coadiuvato –non a caso- da un grande imprenditore della comunicazione come Casaleggio.

All’estero, o quantomeno nei paesi europei, tale tendenza sembra essere assai più ridotta.
Un po’ più marcata, invece –ma non ai livelli italiani- la troviamo negli Stati Uniti. Anche negli States esiste una certa retorica a proposito dei presidenti “popolari” e infatti abbiamo avuto diversi presidenti che non provenivano dal ceto politico tradizionale (tipo Carter, che coltivava arachidi, o Reagan, attore).

Chi invece ha imparato bene la “lezione” (forse perché la sua sede è pur sempre in Italia) è la Chiesa Cattolica.
Il primo protagonista di tale tendenza è stato sicuramente Papa Wojtyla. I mass-media ce l’hanno sempre presentato come un ex operaio e come una persona molto “umana”.
A partire dal gesto –sicuramente studiato- di baciare in terra nei luoghi che egli visitava. Poi, Wojtyla lo si è visto scendere in una miniera con tanto di elmetto e fare numerosi gesti “da gente comune”, tipo andare a sciare e tant’altro.
Tutto ciò serviva a divulgare l’immagine di una persona “del popolo” e umile.

Papa Ratzinger si prestava poco a tale meccanismo (chissà se è stato sostituito anche per questo motivo).
Viceversa, Papa Bergoglio sembra proprio tagliato a tale scopo, con il suo viso da “buonaccione”.
E alcune “rinunce” (puramente esteriori) hanno fatto il resto: oggi egli appare essere una persona buona e che incarna lo spirito di una chiesa, che vorrebbe cambiare e diventare più umile.

In realtà la Chiesa Cattolica continua ad essere un impero economico di dimensioni molto più che “faraoniche”. Basti pensare che, solo in Italia, detiene a vario titolo almeno un quarto di tutte le proprietà immobiliari del paese e possiede hotels, negozi, ospedali, scuole, ristoranti e tantissimo altro, per un giro d’affari semplicemente colossale. Tutto (o quasi) esentasse. Alla faccia dell’umiltà!

Comunque sia, al di là di tutto, il fatto che il potere di oggi tenda a “mascherarsi” e ad apparire più popolare e meno aristocratico e faraonico, è, in sé, un fatto positivo, poiché testimonia del fatto che i ceti popolari hanno acquisito maggiore importanza e considerazione nell’ultimo secolo e mezzo.

Ma non basta: affinché i ceti proletari imparino a non farsi ingannare dal potere “mascherato”, occorre che facciano –in sintesi- due cose: lottare e istruirsi.
Sono l’ignoranza e la passività gli elementi che impediscono a questi settori della società di prendere coscienza della realtà e che permettono di farsi ingannare da chi fa finta di essere uno di loro (di solito per sfruttarli meglio).

lunedì 27 aprile 2015

immigrazione clandestina: una soluzione ci sarebbe, ma...

Durante il mio recente viaggio in Egitto sono rimasto colpito da due cose.
La prima me l’aspettavo, ed è la povertà di gran parte della popolazione locale, la quale si percepisce molto chiaramente girando per il paese e in diversi quartieri del Cairo.
La seconda cosa è stata quella di vedere nell’albergo dove soggiornavamo al Cairo una quindicina, circa, di ragazzi molto giovani e gravemente feriti. Uno aveva una gamba amputata, altri due erano in carrozzina e gli altri con le stampelle e braccia o gambe ingessate. Ragazzi!!
Alla reception mi hanno spiegato che sono ragazzi libici, vittime della guerra, e ospitati lì per un soggiorno di recupero, grazie –se ho capito bene- all’ambasciata egiziana in Libia.

Certo, entrambe le cose che ho visto coi miei occhi, povertà e ragazzi feriti, sono forse l’anticamera dell’anticamera dei problemi che ci sono in Africa.
E che spiegano ampiamente –per chi lo vuole capire- come mai ci sono centinaia di migliaia di africani che vogliono scappare via dalla loro terra, sacrificando i risparmi di una vita per pagare la traversata sui barconi, rischiando la vita, per poi ritrovarsi –se sono fortunati- dall’altra parte del Mediterraneo, in un paese sconosciuto, dove popolazione e istituzioni sono tendenzialmente ostili nei loro confronti (checché ne dica una certa squallida campagna mediatico-propagandistica di destra, la quale favoleggia su improbabili privilegi di cui gli immigrati godrebbero, a scapito degli italiani).

La maggioranza degli italiani reagisce con fastidio di fronte a questa che viene percepita come una vera e propria invasione di extracomunitari, anche perché ha totalmente perso coscienza di che cosa significhino la guerra e la miseria (ma ho come la sensazione che non tarderanno a riscoprirlo).
Non è questione di “buonismo” o non “buonismo”: nemmeno i governi di centro-destra che ci sono stati recentemente in Italia, con tanto di legge sull’immigrazione Bossi-Fini (che -lo ricordiamo- ha introdotto il reato di clandestinità) sono riusciti minimamente ad arginare il fenomeno.

Evidentemente serve un altro approccio.
Intanto è importante osservare che l’intervento militare della NATO (Italia compresa) contro la Libia di Gheddafi nel 2011 -dettato da “appetiti” petroliferi- ha prodotto, nel tempo, un aumento esponenziale degli sbarchi di clandestini, dato che ha distrutto uno Stato solido, con una buona economia e una situazione politica tranquilla. Oggi la Libia è un coacervo di gruppi estremisti e terroristi che si sparano addosso, strade e ospedali sono distrutti e l’economia è nel più totale collasso.
La Libia di Gheddafi era un potente argine contro l’immigrazione tramite barconi. NOI l’abbiamo distrutta.

Ma i problemi dell’Africa sono molto più profondi.
Il Continente Nero è in realtà pieno di risorse e potrebbe essere ricchissimo. Purtroppo nei secoli scorsi (e ancora oggi) è stato letteralmente saccheggiato dal colonialismo euro-americano.
Prima tramite il colonialismo direttamente politico, poi –dal dopoguerra- attraverso una nuova forma di colonialismo indiretto, per cui gli Stati africani rimangono –in teoria- indipendenti, ma in realtà vengono governati da dittatori locali, che però sono quasi sempre dei fantocci, controllati dai paesi ricchi europei e sempre più dagli americani.

Questi paesi subiscono uno sfruttamento economico e una depredazione delle loro risorse, che forse nemmeno durante il “vecchio” colonialismo politico esisteva.
Inoltre l’Occidente favorisce spesso conflitti “locali”, appoggiando l’una o l’altra fazione, a seconda della convenienza, e alimentando tensioni e conflitti, appunto, per controllare le zone economicamente fruttuose, tipo il petrolio, o le miniere –di cui l’Africa è ricchissima- ecc.
Tutto ciò impedisce ai paesi africani di sviluppare una propria economia, e quindi un certo benessere, in grado di bloccare miseria, sottosviluppo e conflitti vari.

 

La soluzione a tali problemi esiste, e consiste nel cambiare completamente approccio nelle politiche verso i paesi africani, prendendo esempio da ciò che sta sempre più facendo la Cina.
La Cina negli ultimi anni ha enormemente incrementato la sua presenza commerciale (e non solo) in Africa. Da cui ricava risorse preziose e fondamentali.
Ma, a differenza dei paesi euro-americani, pratica una ragione di scambio molto più equa, pagando agli africani un prezzo decente e non una miseria, come invece fanno i “nostri”.
Inoltre, investe pure sulle infrastrutture di quei paesi (strade, ospedali, scuole, ferrovie, ecc.), arrivando ad inviare i suoi ingegneri per realizzare tali opere.
Ciò permetterà –se non ci saranno intoppi- a molti di questi paesi di realizzare in futuro uno sviluppo oggi impensabile.

Questo è ciò che dovrebbero fare anche i nostri paesi, invece di gridare “al lupo” per dei poveri disperati, che arrivano da noi in cerca di sopravvivenza.

Ma il governo cinese lo può fare, perché ha una sua autonomia dai potentati economici. Mentre i nostri paesi (pseudo) “democratici” sono fortemente egemonizzati e controllati da parte del capitale finanziario e dalle multinazionali. E questi ultimi ragionano solo ed esclusivamente in termini di profitti immediati o di breve termine e sono privi di lungimiranza.
E quindi teniamoci l’immigrazione selvaggia, con tutte le sue conseguenze.
Invocare minor tolleranza e più repressione non servirà assolutamente a niente (se non a dare qualche voto in più alla Lega di Salvini)!

mercoledì 1 aprile 2015

Siamo in Terza Guerra Mondiale (anche se non lo sappiamo)

Siamo in guerra, nella Terza Guerra Mondiale.
Lo so: sembra una battuta, o quantomeno un’esagerazione. Ma è così.
Il motivo per cui in Italia non ce ne accorgiamo è perché questa guerra si sta combattendo anche e soprattutto con mezzi e con armi assolutamente inediti.
E anche perché ci aspetteremmo che una guerra mondiale oggi venga combattuta con gli armamenti nucleari, cosa che non sta avvenendo, almeno finora (anche se ci sono dei segnali inquietanti che gli Stati Uniti vogliano attaccare la Russia con ordigni nucleari).

Comunque, che la Terza Guerra Mondiale sia già scoppiata l’ha detto anche un autorevole personaggio pubblico, assai distante dalle mie opinioni.
Chi mi conosce sa che io, oltre ad essere ateo, non ho mai avuto troppa simpatia verso i papi in genere. Ma so anche che un papa è di solito molto ben informato sulle vicende del mondo e che non parla a casaccio. E Papa Francesco ha detto un mesetto fa che la Terza Guerra Mondiale è già iniziata e si sta combattendo “a pezzetti”.

Ma con quali mezzi si sta combattendo questa guerra?
Intanto anche con armi tradizionali.
Già l’invasione dell’Afghanistan (dove è stata realizzata la più grande base militare USA, non a caso nel cuore del Continente Asiatico, tra la Russia, la Cina, l’India e l’Iran) e quella dell’Iraq hanno rappresentato dei “preparativi” per questo conflitto.

Ma l’accelerazione è avvenuta negli ultimi 4 anni, complice anche la crisi economica capitalistica.
Prima la guerra alla Libia di Gheddafi condotta direttamente dalla NATO a suon di bombardamenti e indirettamente, tramite le milizie estremiste islamiche (sostenute e finanziate dall’Occidente). Poi la guerra alla Siria –sostanzialmente persa- condotta indirettamente, tramite i “ribelli siriani” (in gran parte mercenari stranieri -tra cui la famigerata Isis- appoggiati sempre dall’Occidente) e per poco non direttamente dalla NATO anche quella (dato che si opposero la Russia e la Cina).
Discorso simile per quanto riguarda l’Ucraina, dove un colpo di Stato (neanche a dirlo, anche questo appoggiato sfacciatamente dagli europei e ancor di più dagli americani) ha scatenato violenze e conflitti interni, sfociando in una vera e propria guerra nelle zone orientali (ora si è raggiunta una tregua, grazie a Russia, Germania e Francia; ma quanto durerà, considerando che gli USA scalpitano per proseguire ed aggravare il conflitto?).

Nell’ultima settimana, poi, è scoppiata un’altra guerra “convenzionale”, quella nello Yemen. L’Arabia Saudita –a capo di una coalizione di Stati arabi- sta attaccando e bombardando i ribelli yemeniti, i quali nei mesi scorsi sono riusciti a prendere il controllo di quasi tutto il paese e a cacciare vie l’ex dittatore Hadi.
Nonostante in Italia quest’ultimo conflitto abbia poca risonanza, non si tratta di una guerra locale e per almeno 2 motivi: primo, perché lo Yemen si trova geograficamente in una zona strategica, all’imbocco del Mar Rosso (quello che conduce al Canale di Suez, per intenderci), con tutto quello che ne consegue, in termini di flussi commerciali, soprattutto petroliferi, e secondo perché l’Arabia saudita è da sempre alleato strategico degli Stati Uniti e di Israele e agisce (anche) per conto loro. Non a caso gli yankees appoggiano quest’intervento.

E come se tutto ciò non bastasse, gli Stati Uniti hanno recentemente minacciato un intervento militare pure nel Venezuela bolivariano, rischiando, così, di aprire un ulteriore fronte di guerra anche in America Latina, nel loro (ex) cortile di casa.

 

Ma, come già accennato, oltre alle guerre “convenzionali” oggi esistono anche guerre combattute con altri mezzi, solo in apparenza meno letali. E anche lì siamo in piena guerra mondiale.

Esiste, intanto, la guerra mediatica (o psicologica) –sulla quale non mi dilungo, perché richiederebbe un articolo a parte- ma che è sostanzialmente propedeutica al conflitto vero e proprio, dato che consiste nel far accettare alla popolazione l’idea dell’assoluta e urgente necessità dell’intervento militare.

Poi c’è la guerra commerciale, ossia, le “sanzioni economiche”, che sono un po’ la versione moderna degli assedi medievali alle città, dato che l’obbiettivo è quello di “affamare” lo Stato vittima, privandolo di risorse energetiche, alimentari, sanitarie, ecc. indispensabili per quel paese e per la sua popolazione.
E’ stato il caso di Cuba, colpito dall’embargo americano per decenni. Poi dell’Iraq di Saddam Hussein (il cui embargo ha causato centinaia di migliaia di morti, soprattutto bambini).
Ora gli Stati Uniti stanno sanzionando anche il Venezuela e soprattutto la Russia (vittima di sanzioni UE e soprattutto USA; le quali sanzioni, però, si stanno ritorcendo, come prevedibile, pesantemente anche su Germania, Francia e sulla stessa Italia).

E poi esiste anche la guerra terroristica.
L’attentato terrorista è in molti casi una vera e propria arma di guerra. Ed è particolarmente letale, non solo e non tanto per i danni e le morti concrete che provoca, quanto per le conseguenze sull’opinione pubblica e sulle decisioni politiche.

L’attentato terrorista presenta, infatti, un enorme vantaggio per chi lo decide e organizza (gli esecutori materiali contano poco, dato che sono quasi sempre dei burattini manovrati, spesso inconsapevolmente): il vantaggio che per il grosso dell’opinione pubblica, e quindi per la popolazione vittima, è difficilissimo capire chi sono i veri autori di questo.
Viceversa, i politici ad alto livello (capi di Stato, ma anche di partiti, ecc.) di solito sanno benissimo chi è che decide tali attentati e i veri motivi di questi. Solo che il più delle volte sono impossibilitati a rivelarlo pubblicamente, per diversi motivi (a partire dal fatto che, non avendone le prove, rischierebbero di esporsi a brutte figure e di apparire poco credibili).

Dunque, gli attentati terroristici (tipo quello recente di Parigi, alla Charlie Hebdo, ma anche quello di Copenhagen, quello di Tunisi e forse perfino lo stranissimo “incidente” aereo della GermanWings) possono avere quantomeno due funzioni: quello di spostare l’opinione pubblica di uno o più paesi in una determinata direzione, sfruttando il fatto che essa non ha modo di sapere chi è il vero autore di questi e/o quello di inviare un messaggio “in codice” (di solito una minaccia) ai vertici politici di determinati Stati o partiti (il cui senso è “se non fate come vogliamo, vi colpiamo molto duramente”).

 

Finora l’unica “arma” di queste che è stata utilizzata in Italia è stata quella mass-mediatica (in modo particolare la campagna anti-islamica e quella anti-russa, entrambe pienamente funzionali agli appetiti guerrafondai americani), e, direi, anche con grande successo.
Ma occhio, che altre armi sono in agguato e potrebbero colpirci assai presto!