martedì 22 settembre 2015

profughi verso l'Europa e campagne mediatiche

Nell’ultimo mese abbiamo assistito ad una forte campagna mediatica sul problema dei profughi, che fuggono dalle loro terre (Africa, Medio Oriente) per approdare nella “ricca” Europa.
Personalmente ho imparato a diffidare di queste campagne mediatiche, a volte martellanti, che di solito ci presentano un problema -che magari esiste da decenni- come se fosse un’emergenza degli ultimi tempi, quando non un pericolo urgente.
Per poi, dopo qualche settimana, sparire dai riflettori, dandoci la sensazione quasi che il problema non esista più.

Innumerevoli sono state negli anni scorsi, ad esempio, le campagne sulla criminalità, specie sotto le elezioni. Fenomeno presentato di modo che incutesse terrore, nonché richiesta di “sicurezza”.
E poi, passate le elezioni, inspiegabilmente i delinquenti si danno una calmata e, anzi, sembrano addirittura scomparire.
tesso discorso sui pedofili e tanto altro ancora.

La campagna mediatica recente sui profughi che invadono l’Europa presenta numerosi limiti.
Forse l’unico aspetto positivo di questa, è che dovrebbe aver chiarito a tanti il fatto che queste sono, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, persone disperate che fuggono dalla guerra, o comunque da condizioni di vita impossibili (tranne i razzisti incalliti, ma, si sa: c’è gente che ancora oggi è convinta che la Terra sia piatta).

Però, a parte quello, siamo in presenza della solita campagna basata sulla disinformazione, ma –attenzione!- si tratta di una disinformazione “intelligente” e oserei dire subdola.
Intanto, infatti, c’è un tentativo di ridare un’immagine “buona” al governo tedesco della Merkel, come quello che accoglie “generosamente” i profughi.
E ciò dopo che a luglio ha mostrato, contro la Grecia, il suo volto più autentico, quello di affamatore dei popoli, per conto delle banche e del capitale finanziario, in genere.
Come se tutta questa ondata di stranieri disperati –e quindi disposti a lavorare per salari ridicoli- non verrà poi utilizzata per ricattare i lavoratori tedeschi (e non solo).

Un altro elemento di disinformazione è l’insistenza nel classificare i profughi come “siriani”.
In realtà tra i profughi che arrivano in Europa c’è di sicuro una forte componente di siriani. Ma ci sono anche numerosi iracheni, afghani, libici, e di tanti altri paesi.
Solo che in Afghanistan, in Iraq e in Libia, l’Occidente è intervenuto direttamente, invadendo quei paesi, per cui parlare dei profughi di quei paesi significherebbe ammettere il fallimento (per non dire l’orrore) di quelle guerre volute e condotte dai paesi sedicenti “democratici”.

Viceversa, in Siria il governo di Assad è ancora in piedi, nonostante l’enorme sforzo economico (e non solo) che USA, Arabia Saudita, Turchia (che fa parte della NATO), ma anche Francia e altri hanno profuso per liquidarlo, finanziando, armando e appoggiando formazioni quali l’ISIS e Al Nusra.
Quindi, insistere sul fatto che si tratta di profughi “siriani” fa sì che la gente sia portata a pensare che il problema stia nel governo di Assad –guarda caso, uno dei pochissimi nella zona a non piegarsi ai diktat statunitensi- e sia poi disposta ad accettare eventuali futuri interventi militari, presentati “contro il terrorismo”.
Come se non fossero stati proprio gli interventi militari occidentali degli anni scorsi (Afghanistan, Iraq, Libia) ad aver alimentato le ondate di profughi negli ultimi decenni.

 

Un altro elemento ancora di disinformazione, rispetto alla campagna mediatica sui profughi, sta nel presentare il problema, mettendo in contrapposizione le politiche “buoniste” di accoglienza nei loro confronti con quelle di chiusura (emblematico il muro issato dall’Ungheria fascista di Orban) e di presunta difesa del popolo autoctono, dagli “invasori”.

In realtà, riuscire a contenere l’imponente flusso di immigrati-profughi che arrivano nei “paesi ricchi” dai “paesi poveri” è, alla lunga, praticamente impossibile. Qualunque tipo di politica si metta in atto.
Anche discorsi del tipo “aiutiamoli a casa loro” si rivelano solo degli slogans, perché di solito non abbiamo ben chiaro che cosa veramente accade “a casa loro”.

Il discorso sarebbe lunghissimo, perché qui andiamo a cozzare con un fenomeno, che è poi la vera causa di fondo di questi imponenti movimenti umani di disperati in cerca di un luogo dove poter sopravvivere: il NEO-COLONIALISMO.
Ossia –sinteticamente- lo spolpamento, da parte dei paesi occidentali (e soprattutto delle loro multinazionali) dell’economia e delle risorse di tanti paesi africani e asiatici.
I quali rimangono solo formalmente indipendenti, ma hanno dei governi fantocci nelle mani dei potentati finanziari euro-americani.
Nonché il proliferare di guerre e conflitti apparentemente “locali”, ma quasi sempre finanziate dai paesi ricchi e dai loro colossi finanziari, interessati ad accaparrarsi le materie prime, i mercati e in ogni caso a vendere armi.

Di fronte a dinamiche di enorme portata come queste ci sentiamo impotenti.
Ma, in realtà, nel nostro piccolo, qualcosa possiamo fare.
E il primo passo per contrastare le politiche di sfruttamento e guerrafondaie, che portano con sé tali dinamiche migratorie massicce, è quello di fare un piccolo sforzo per superare diffidenze e ostilità e capire che l’immigrato non è un nemico, bensì una vittima –come spesso siamo anche noi, ma loro molto di più- delle dinamiche economiche dominanti, ossia, quelle capitalistiche.
E rendersi conto che gli immigrati possono, anzi, devono essere dei nostri alleati per contrastare chi sta iniziando ad affamarci anche a noi, con le politiche liberiste dell’austerity.

lunedì 20 luglio 2015

Syriza: comunque sia, grande prova contro la dittatura della Troika

Come c’era da aspettarsi, l’accordo Grecia-Europa seguito al referendum ha suscitato una valanga di commenti.
A prescindere dal giudizio che si possa dare circa l’operato finale di Alexis Tsipras –e più avanti esporrò il mio- è deprimente sentire (o leggere, ad esempio su facebook) così tanti commenti superficiali, schematici e soprattutto sganciati da qualsiasi riferimento ad un contesto, da qualsiasi considerazione circa i rapporti di forza concreti e privi spesso di una minima capacità di valutazione complessiva dei soggetti e degli attori in campo (ad esempio, concetti come “traditore” non aiutano a capire nulla): l’impressione a volte è quella di avere a che fare con i tipici commenti degli spettatori televisivi di una partita di calcio.

Prima dunque, di valutare la scelta finale di Tsipras, preferisco partire da alcune premesse.
La prima è che intanto Syriza, partito inequivocabilmente di sinistra, è riuscita, negli anni scorsi, a rappresentare il malcontento popolare e in genere i ceti popolari e i lavoratori. In Italia siamo lontanissimi da un simile risultato.
Forte di questa capacità, ha vinto le elezioni politiche, nonostante avesse contro persino un partito come il KKE, con un suo discreto radicamento tra i lavoratori.

Perlomeno fino al referendum, il governo di Syriza è rimasto fedele e coerente al mandato elettorale –unico caso in tutta Europa!- portando avanti misure che andavano decisamente controcorrente rispetto ai dominanti diktat liberisti.
Lo stesso ricorso al referendum è stato una sfida del tutto inedita, nel panorama politico europeo, nei confronti dello strapotere della Troika: un nano che sfida un gigante!

Contemporaneamente non vanno dimenticate le condizioni della Grecia -la miseria cresciuta negli anni scorsi, un’economia a terra- ma soprattutto il ricatto economico costituito dalla chiusura delle banche e dei bancomat (sarei proprio curioso di vedere come reagirebbero la maggioranza degli italiani che oggi gridano che bisogna uscire dall’euro, di fronte alla chiusura inoltrata dei bancomat).

Infine, l’ultima –ma non per importanza- premessa è quella di carattere internazionale, o meglio, di carattere intercontinentale, e riguarda i rapporti con altri attori, che hanno di sicuro giocato un ruolo importante nella vicenda, anche se vengono poco menzionati. Ossia, gli USA, in primis, poi la Russia e la Cina.
Infatti dalle mie (sicuramente limitate) informazioni, mi risulta che non solo gli americani, ma anche le altre due potenze non fossero d’accordo a che Atene uscisse dall’euro. E ovviamente parliamo di paesi che contano e pesano.

Finite le premesse, provo a dire una mia opinione.
Secondo me Syriza avrebbe dovuto fin da subito lavorare per preparare il cosiddetto “piano B”, ossia l’eventuale uscita dall’euro.
Intanto per un motivo banale: se il tuo nemico (perché tale va considerato) ha due alternative e tu ne hai una, vince lui.
E poi perché non solo le politiche di austerity, ma lo stesso euro –per come è strutturato- ha come conseguenza l’attacco al salario (diretto e indiretto, ossia il welfare-state) dei lavoratori e dei ceti popolari.

Infatti, a mio avviso occorrerebbe che non solo la Grecia, ma anche l’Italia incominciasse a pensare seriamente di uscire dall’euro.
Ma purtroppo la cosa non è così semplice: l’uscita dall’euro –demagogia a parte- è un percorso complicato e delicato, sia economicamente che politicamente, e deve essere ben preparato e seguito da diverse misure adeguate, altrimenti potrebbe portare per davvero alla catastrofe. Ma può e deve essere fatto, prima o poi.

L’errore di Tsipras, dunque, è stato quello di non ipotizzare tale possibilità.
Sempre che tale “errore” non sia stato condizionato –come già detto- da dinamiche geopolitiche e economiche intercontinentali.

Comunque sia, tanto di cappello e grande stima per un partito come Syriza, che rimane l’unico partito europeo che finora ha provato concretamente a fare politiche in contrasto con il dogma liberista. Almeno ci ha provato…

martedì 7 luglio 2015

Grande vittoria del popolo greco e miserie italiane.

Non credo che serva spendere troppe parole sullo strepitoso risultato del referendum del 5 luglio in Grecia, grazie al quale il popolo ellenico, a netta maggioranza, ha rigettato le politiche di austerity –ossia, di impoverimento sociale- imposte in modo ricattatorio dalla Troika (FMI, BCE, UE).
E’ la prima volta che un governo e un popolo in Europa osa sfidare lo strapotere del capitale finanziario euro-atlantico.

Staremo a vedere come si evolveranno i fatti (ma dobbiamo comunque tenere presente che non si trattava di un referendum pro o contro l’euro) e a cosa porteranno le inevitabili trattative.
Ed è ancora prematuro anche fare una valutazione, ad esempio, sulle strane ed improvvise dimissioni del Ministro Varoufakis.
Ma quello che è importante cogliere, io credo, è che grazie al Governo Tsipras e ai risultati del referendum, sono mutati i rapporti di forza: ora l’UE non potrà più imporre i suoi programmi come prima, ma è costretta a negoziare. Sempre che voglia farlo.
Ma, nel caso contrario, dovrà assumersi la responsabilità politica di cacciare la Grecia dall’Europa.

 

Ora veniamo in Italia.
Quando si parla di "miserie italiane", la prima cosa che viene in mente è il Governo Renzi e il Partito Democratico.
Non mi dilungo su questi, la cui critica è per me scontata. Ho sempre criticato il PD, fin dal momento della sua nascita (ossia, quando c'era Veltroni) e non ho certo meno motivi per farlo ora. Renzi e il PD li considero dei burattini al servizio delle banche e multinazionali (e delle politiche guerrafondaie USA).

Ma due paroline vanno spese anche sul malcostume -tipicamente italiano- di "salire sul carro del vincitore". La grande vittoria e il coraggio del Governo Tsipras e di Syriza, fanno sì che parecchi personaggi -in chiara ricerca di pubblicità- vadano ad Atene a festeggiare la vittoria.
Civati, Fassina, Grillo e Vendola, dopo aver fatto per anni una politica quantomeno ambigua –e comunque NON in sintonia con Syriza- ora vanno tutti ad Atene, sperando di riscuotere pubblicità –grazie alla complicità dei vergognosi media italiani, che fanno il loro gioco- e qualche voto in più.

Pippo Civati e Stefano Fassina fino a pochi mesi fa hanno contribuito, votandole, alle peggiori leggi e misure liberiste e di austerity, in linea con la Troika (Jobs Act e Riforma Fornero, tanto per dirne due) e sono stati dirigenti per 7 anni di un partito, il PD, che è quanto di più filo-BCE e filo-atlantico non si possa immaginare.

Beppe Grillo e il M5S, anche se agli occhi di molti italiani sprovveduti possono apparire vicini a Syriza, dato che anche loro sembrano contestare il potere e l’arroganza dell’Europa delle banche, sono in realtà molto, molto distanti da questa.
A parte il fatto che il M5S è per l’uscita dall’euro, mentre Syriza non lo è (anche se ovviamente deve valutare pure questa possibilità), Syriza è un partito (partito!!) espressamente di sinistra (la “A” di SyrizA sta per Aristera= sinistra). Inoltre è contrario alla xenofobia e ha un programma e una collocazione ben definiti.
Viceversa, il M5S parla a 360°, dice tutto e il contrario di tutto, parla di “onestà” (che in politica non vuol dire assolutamente nulla, potendo essere interpretabile in tanti modi diversi) e fa tanti bellissimi discorsi, ma poi non è chiaro il suo programma e soprattutto la sua collocazione politica. Sta di fatto che in Europa ha scelto di stare con le destre conservatrici e xenofobe.

Niki Vendola: il suo “errore” (e mi tengo moderato nei giudizi) più grave è stato quello di aver voluto far aderire SEL al PSE. Lo stesso slogan “con Tsipras, ma non contro Schulz” –slogan che rifletteva un chiaro scontro interno- appare oggi in tutta la sua ridicolaggine.
Meno male che molti compagni di SEL non hanno accettato l’entrata nel PSE, dimostrandosi assai più saggi del loro segretario.

L’unico personaggio veramente degno di stare ad Atene e di festeggiare la vittoria dei “NO” al referendum, è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista.
Il PRC in questi anni ha sempre espresso, in modo coerente e senza tentennamenti, una politica molto simile a quella di Syriza. Inoltre è stato il partito che ha promosso alle ultime elezioni europee la Lista Tsipras, che in Europa sta nello stesso gruppo con Syriza (GUE/GNL).

Anche per questo motivo i telegiornali e i quotidiani italiani hanno snobbato il PRC e Ferrero quasi del tutto.
Infatti, la miseria italiana, prima ancora che essere dei politici, è di tutto il sistema economico e mass-mediatico. Il quale non ha alcun interesse a cambiare le cose, ma solo a far pubblicità ai ciarlatani, ai voltagabbana e ai personaggi ambigui.

mercoledì 1 luglio 2015

Grecia: lotta di classe. Per loro e anche per noi.

Come dovrebbe essere noto, in Grecia il Governo Tsipras ha indetto per il 5 luglio prossimo un referendum per far esprimere il popolo greco sulle misure che la Banca Centrale Europea vuole imporre al paese, per ripagare il debito.

Va precisato che non si tratta di decidere l'uscita di Atene dall'euro, come qualcuno pensa. Syriza (il principale partito al governo) non ha mai detto di voler uscire dall'euro. Anzi, contrariamente a ciò che si vuol far credere, è intenzionata a ripagare il suo debito. Solo che il governo ellenico intende decidere sovranamente (ne avrebbe tutto il diritto) in che modo ripagarlo, ossia, dove recuperare le risorse per farlo.
E -per la prima volta- intende far pagare chi non l'ha mai fatto sinora, e cioè i ricchi e i grandi evasori fiscali (armatori in primis). Questi sono rimasti sostanzialmente intoccati dalle ben 5 manovre “lacrime e sangue” che ha subito la Grecia negli scorsi anni e che hanno ridotto vasti strati della popolazione a livelli di miseria che da decenni non si vedevano in un paese europeo.

Ebbene: è stato precisamente questo programma che all'Europa delle banche non è andato giù.
Il che dimostra come alla BCE non interessa tanto che la Grecia saldi il suo debito, quanto imporre a tutti i popoli (la Grecia funge da cavia) le politiche liberiste e di austerity, fatte di bassi salari, ricattabilità e debolezza dei lavoratori, pensioni da fame e privatizzazione della sanità e dei servizi sociali.

Va chiarito anche un altro equivoco: la Grecia NON si trova in queste condizioni perché in passato il suo Stato avrebbe fatto spese eccessive, o –come si dice- perché avrebbe truccato i cuoi conti pubblici (cosa che non doveva essere poi difficile da scoprire a suo tempo; e pare che anche altri paesi -tra i quali Francia e Germania- l’abbiano fatto).
Le spese statali della “virtuosa” Germania sono –in percentuale sul PIL- assai maggiori di quelle dell’Italia, a sua volta superiori di quelle elleniche.

Certo, la Grecia ha, di suo, un’economia storicamente debole.
Ma l’Europa unita non era stata a suo tempo presentata proprio come un’opportunità anche e soprattutto per i paesi deboli? Una vera unità europea non dovrebbe favorire investimenti (controllati, certo; nessuno parla qui di sovvenzioni a pioggia) diretti proprio alle zone più arretrate per far sviluppare un po’ tutte le economie, e realizzare, così una VERA integrazione?
Tra l’altro una politica di investimenti in Grecia (e non solo) darebbe un notevole contribuito a sviluppare un’economia tale, che ora Atene non avrebbe alcun problema a ripagare il debito.

 

Ma il problema è che l’Unione Europea è rigorosamente liberista, ossia, strettamente dipendente dalle leggi del capitalismo. Per cui, gli Stati non devono investire.
Lo dovrebbero fare i privati, ossia, i capitalisti, ma dato che a questi, specie in tempi di crisi economica, gli investimenti spesso non convengono -e quindi non si fanno- essi cercano di realizzare i loro bei profitti rivolgendosi alle speculazioni finanziarie. Le quali si alimentano –guarda caso!- proprio sui debiti sovrani.

Dunque, alla BCE (organismo non eletto dai cittadini, ma quello che di gran lunga ha il maggior potere nell’area-euro) interessa solo far fare profitti alle banche, sfruttando il debito pubblico e riducendo vasti strati di popolazione senza lavoro, senza pensioni, senza servizi e in miseria.
Il popolo ellenico è da considerarsi, sotto quest’aspetto, semplicemente come apripista: poi toccherà agli spagnoli, ai portoghesi, agli italiani e altri ancora.

Il debito pubblico o sovrano, tra l’altro, non è un fenomeno così anomalo e negativo come ci vogliono far credere. In realtà il debito pubblico ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’economia capitalistica. Non a caso, lo stesso Karl Marx ne parla più volte nei suoi libri sull’economia.

Tornando alla Grecia, staremo a vedere ciò che uscirà dal referendum del 5 luglio prossimo. Vedremo se si troverà comunque alla fine un accordo, oppure se Atene uscirà dall’euro.
Ma la cosa importante da capire è che la battaglia che stanno portando avanti i greci ha un fortissimo valore anche per noi: se il popolo greco vincerà sui ricatti europei, anche per noi italiani in futuro sarà meno dura; se loro perdono, aspettiamoci presto misure “lacrime e sangue” anche da noi.

Ma forse c’è anche un’altra speranza: i BRICS (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Sembra infatti che soprattutto la Russia e la Cina siano intenzionate ad intervenire, finanziando la Grecia e facendo investimenti (cosa che avrebbe dovuto fare un’Europa veramente unitaria).
Verificheremo se e come accadrà e con quali esiti. L’importante è che il mondo sta cambiando e la tirannia del FMI-BCE-Commissione Europea (la “troika”) stia sempre più perdendo il suo monopolio, oltre che credibilità.

E, determinante sarà intanto la vittoria del “NO” al referendum greco del 5 luglio.

lunedì 1 giugno 2015

Roma, il problema non è solo Marino (ma anche lui)

Inizio con una premessa doverosa: non sono affatto contento dell’operato complessivo del sindaco di Roma, Ignazio Marino, e non intendo certo giustificarlo.
Diciamo che Marino, più o meno come i sindaci precedenti, sta dimostrando di agire soprattutto per favorire i classici “poteri forti” della capitale.
Ma non è che mi fossi mai illuso che potesse fare diversamente. Infatti alle ultime elezioni comunali l’ho votato solo al ballottaggio e solo per non far rivincere Alemanno, il quale ultimo ritengo sia stato capace di essere anche peggio dell’attuale sindaco.

Ma più che al paragone con Alemanno, il sindaco Marino sembra –apparentemente- sfigurare ancor di più nei confronti di Veltroni.
In realtà se quest’ultimo è stato a suo tempo eccessivamente osannato (si arrivò addirittura a parlare di un molto discutibile “modello Roma”), l’attuale primo cittadino di Roma viene, secondo me, criticato in modo un po’ troppo esagerato.

A dir la verità è difficile fare un paragone tra Veltroni e Marino, dato che è cambiata la fase politico-economica: le politiche nazionali di austerity e di riduzione del debito pubblico hanno imposto pesanti tagli, in questi ultimi anni, da parte dello Stato Italiano nei confronti degli Enti Locali, e quindi anche del Comune di Roma.
Ossia, tradotto in parole semplici: se oggi ci fossero Rutelli, Veltroni o Alemanno, con tutta probabilità si comporterebbero in modo simile a Marino.

Il quale sta effettuando tagli su parecchi servizi fondamentali, come i trasporti (!), la cultura, gli asili-nido e tanti altri servizi, il che porta delle conseguenze significative (negative) per quanto riguarda l’occupazione.
Ma su questo Marino è in linea con Renzi, il quale a sua volta è in linea con le politiche europee di tagli al bilancio. Tutto parte dall’Europa (delle banche e delle multinazionali). E’ perfettamente inutile attaccare Marino se poi non si mettono in discussione anche le politiche europee di austerity.

Ma i grossi nodi per il futuro sono due: le privatizzazioni e la cementificazione.
Oggi il mondo dell’imprenditoria –sempre affamato di profitti- sta puntando sempre più alle privatizzazioni di quei settori, nei quali il profitto è massimo, dato che operano in un regime di monopolio e gli investimenti limitati.
Ossia, sui servizi ai cittadini: acqua, luce, sanità, trasporti, scuole, ecc.
Non è un caso che Caltagirone, il noto palazzinaro, sta sempre più puntando su ACEA.

Ma ormai dovremmo aver fatto esperienza di che cosa sono le privatizzazioni.
Negli anni ’90 in Italia c’era il mito del privato e del mercato e si pensava che questi avrebbero –grazie agli investimenti e alla concorrenza- migliorato i servizi, e magari anche abbassato i prezzi.
L’esperienza di Alitalia, della Telecom, dell’ILVA, delle FS e tanto altro hanno ampiamente dimostrato che privatizzazione significa soprattutto enorme perdita di posti di lavoro.
Ma tutto questo miglioramento dei servizi non s’è visto. E non s’è visto nemmeno l’abbassamento dei prezzi, anzi.

Inoltre, “Mafia-capitale” ha dimostrato che la corruzione e gli sprechi arrivano ai massimi livelli non quando un servizio è gestito direttamente dal pubblico, bensì quando viene appaltato ai privati, cosa che oggi da noi è diventata la norma.
Anzi, molto del degrado e dell’inefficienza dei servizi della capitale è dovuto proprio alla gestione speculatoria dell’emergenza, che finisce per essere una grande fonte di introiti per qualcuno, il quale quindi non ha alcun interesse a risolvere i relativi problemi.

A Roma avanza (tanto per cambiare) la cementificazione. Con tutto ciò che comporta: abusivismo, dissesto idrogeologico, inquinamento, danni ambientali ed ecologici.
Nonostante tutto ciò, l’espansione edilizia è lontana dal risolvere il problema abitativo, che opprime migliaia di famiglie, ed è invece finalizzata solamente alla speculazione.

 

Roma sarebbe veramente una città meravigliosa, se iniziasse ad essere gestita non più per gli interessi di una casta di pseudo-imprenditori affaristi e speculatori senza scrupoli, ma in funzione dei cittadini di ogni estrazione sociale e in un’ottica di efficienza e di sostenibilità.
E’ chiaro che non possiamo aspettarci questo né da Marino, né da Alemanno, né da tutti quelli che rappresentano gli interessi delle cricche affaristiche (tipo Marchini).
E a maggior ragione non possiamo aspettarcelo, finché l’Italia continuerà a rimanere succube delle politiche liberiste e di austerity che ci impone l’Europa.

N.B.
Il discorso è necessariamente ultra-sintetico, ma per chi voglia approfondire l’argomento esiste un’interessante analisi in un documento (Roma 2030) che linko:

sabato 23 maggio 2015

Palmira: quando gli interessi geopolitici prevalgono sulla cultura


Credo che tutti abbiano quantomeno sentito parlare di Palmira.
Città antichissima, che si trova nell’attuale Siria e le cui rovine sono state dichiarate dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

Ma, per chi fosse a digiuno di storia e archeologia, un accenno non guasta.
Palmira è una città antichissima, che si trova in un’oasi del deserto siriano, ed è stata particolarmente fiorente e ricca sotto l’Impero Romano. Noto è il regno (effimero) della regina Zenobia, in cui Palmira s’era separata dall’impero, e aveva grandi ambizioni di conquiste, ma venne poi riconquistata dai romani.

Oggi rimangono le rovine di quella città antica. La quale, essendo stata abbandonata nel medioevo, oggi rimane semi-intatta, quasi una sorta di Pompei siriana.

Se non ché, oggi la furia devastatrice dell’Isis (lo “Stato Islamico”), minaccia di distruggere queste rovine. Se lo facesse, sarebbe una perdita inestimabile per il patrimonio storico-artistico mondiale, paragonabile forse alla perdita del Colosseo.
A difendere il sito oggi è soltanto l’esercito regolare siriano (quello fedele al Presidente Assad, per intenderci).

Al momento in cui scrivo non è chiaro se la città di Palmira sia stata del tutto conquistata dai mercenari cosiddetti “islamici”, o se l’esercito siriano mantiene, almeno in parte il controllo della città.
Dalle notizie che arrivano, sembra che alcune colonne antiche siano già state distrutte dall’Isis.
Intanto, però, l’esercito siriano ha provveduto a traslocare molte statue e materiali importanti del sito archeologico in zone sicure.

Dunque, gli stessi soggetti che l’Occidente (USA ed Europa) negli anni scorsi ha chiamato “combattenti per la libertà”, ed ha finanziato e armato (assieme agli alleati dell’Occidente, Arabia Saudita e Turchia), per tentare di rovesciare il regime siriano, colpevole di non assecondare gli interessi degli USA e di Israele.
Gli stessi soggetti -dicevo- ora, dopo aver fatto parlare di sé decapitando prigionieri a più non posso, ora sembra vogliano distruggere interi siti archeologici, come Palmira. Noncuranti nemmeno del fatto che sia stata –ricordiamolo- dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

Sia chiara una cosa: se i miliziani dell’Isis dovessero distruggere tale patrimonio, la RESPONSABILITA’ PRINCIPALE RICADREBBE SUGLI STATI UNITI, SU ISRAELE E SUI PAESI EUROPEI, oltre che sull’Arabia Saudita e sulla Turchia (comunque alleati dei primi).

L’Isis è a tutti gli effetti una creatura della CIA.
Ma non solo: gli Stati Uniti potrebbero benissimo liquidare l’Isis in breve tempo (non hanno nemmeno carri armati, girano con le Toyota). E avrebbero potuto farlo nei mesi scorsi, senza grossi problemi. Ma non lo stanno facendo.
Evidentemente nei loro calcoli geopolitici, la perdita di importantissimi siti archeologici (oltre che di milioni di persone) sono prezzi da pagare pur di mantenere il controllo su una zona strategica come il Medio Oriente.

martedì 12 maggio 2015

quando il potere si finge "popolare" (ma non lo è)

Nel lungo corso della storia le classi dominanti e il potere politico (le due cose non sempre coincidono) hanno sempre cercato di distinguersi dalla gente comune, dal popolo.
L’hanno fatto con le loro residenze, con le loro tombe, nel loro modo di vestirsi, di mangiare, di parlare, nelle loro abitudini, ecc.
E così abbiamo le piramidi faraoniche, i palazzi imperiali, i castelli, le regge alla Versailles, le sontuose ville, il lusso, lo sfarzo, ecc.
Pure il potere religioso non è stato esente da questo comportamento, costruendo grandi templi, moschee, basiliche e cattedrali, le quali avevano un’importante funzione in termini di psicologia politica: quella di far sentire la gente comune “piccola”, umile e debole nei confronti di Dio, e –più concretamente- nei confronti delle gerarchie clericali.
Addirittura si è arrivati a dire che l’aristocrazia avesse “sangue blu”, come a dire che i nobili erano diversi dal popolo anche fisiologicamente.

Questa tendenza a distinguersi dal popolo è iniziata gradualmente ad entrare in crisi tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900.
La lotta di classe, sempre più forte ed organizzata, la nascita delle democrazie di massa e lo sviluppo dei partiti socialisti, popolari e comunisti ha, a poco a poco, convinto il potere a mutare atteggiamento. O almeno alcuni settori del potere, quelli più esposti apertamente all’opinione pubblica.

Oggi la tendenza dei leaders è quella di apparire sempre più come persone “del popolo”.
L’Italia vanta ormai una certa tradizione in questo campo, avendo espresso un pioniere di tale tendenza, ossia Benito Mussolini.
Il “duce”, nelle sue uscite pubbliche, si sforzava di presentarsi in modo molto differente dal classico borghese intellettuale e “perbene”, ostentando un’immagine infarcita di atteggiamenti un po’ militareschi e un po’ popolari rozzi, fino ad arrivare al noto “me ne frego!” (poi, certo, aveva scelto come sua residenza l’aristocraticissima Villa Torlonia…quando si dice la coerenza!).

Per rimanere in Italia, lo “scimmiottamento” di atteggiamenti “popolari” è riesploso –non a caso- dopo il famoso ’89, con l’avvento della Seconda Repubblica.
Invano si cercherebbero espedienti simili in quei grandi dirigenti politici –Berlinguer, Pertini, Togliatti, Longo, Nenni (ma anche De Gasperi, Moro, Andreotti), ecc.- i quali rappresentavano veramente i lavoratori e i ceti popolari. Ma questi erano a capo di partiti radicati nel popolo e non avevano bisogno di scimmiottarlo.

Tornando alla II Repubblica, l’esempio più significativo tra i leaders politici che imitano comportamenti “popolari” è stato sicuramente quello di Silvio Berlusconi. Le sue quotidiane battute, i gesti (anche volgari), perfino le sue gaffes, facevano parte di una tecnica comunicativa ben studiata, tale da farlo apparire come un uomo “del popolo”, e quindi una persona spontanea e distante dalla “casta” dei politici di professione (considerati tout-court “falsi”). E quindi un uomo concreto e vicino agli interessi del popolo.

Un altro maestro nel campo è stato Umberto Bossi, su cui è inutile spenderci troppe parole. Stesso discorso per un comico come Beppe Grillo, tra l’altro coadiuvato –non a caso- da un grande imprenditore della comunicazione come Casaleggio.

All’estero, o quantomeno nei paesi europei, tale tendenza sembra essere assai più ridotta.
Un po’ più marcata, invece –ma non ai livelli italiani- la troviamo negli Stati Uniti. Anche negli States esiste una certa retorica a proposito dei presidenti “popolari” e infatti abbiamo avuto diversi presidenti che non provenivano dal ceto politico tradizionale (tipo Carter, che coltivava arachidi, o Reagan, attore).

Chi invece ha imparato bene la “lezione” (forse perché la sua sede è pur sempre in Italia) è la Chiesa Cattolica.
Il primo protagonista di tale tendenza è stato sicuramente Papa Wojtyla. I mass-media ce l’hanno sempre presentato come un ex operaio e come una persona molto “umana”.
A partire dal gesto –sicuramente studiato- di baciare in terra nei luoghi che egli visitava. Poi, Wojtyla lo si è visto scendere in una miniera con tanto di elmetto e fare numerosi gesti “da gente comune”, tipo andare a sciare e tant’altro.
Tutto ciò serviva a divulgare l’immagine di una persona “del popolo” e umile.

Papa Ratzinger si prestava poco a tale meccanismo (chissà se è stato sostituito anche per questo motivo).
Viceversa, Papa Bergoglio sembra proprio tagliato a tale scopo, con il suo viso da “buonaccione”.
E alcune “rinunce” (puramente esteriori) hanno fatto il resto: oggi egli appare essere una persona buona e che incarna lo spirito di una chiesa, che vorrebbe cambiare e diventare più umile.

In realtà la Chiesa Cattolica continua ad essere un impero economico di dimensioni molto più che “faraoniche”. Basti pensare che, solo in Italia, detiene a vario titolo almeno un quarto di tutte le proprietà immobiliari del paese e possiede hotels, negozi, ospedali, scuole, ristoranti e tantissimo altro, per un giro d’affari semplicemente colossale. Tutto (o quasi) esentasse. Alla faccia dell’umiltà!

Comunque sia, al di là di tutto, il fatto che il potere di oggi tenda a “mascherarsi” e ad apparire più popolare e meno aristocratico e faraonico, è, in sé, un fatto positivo, poiché testimonia del fatto che i ceti popolari hanno acquisito maggiore importanza e considerazione nell’ultimo secolo e mezzo.

Ma non basta: affinché i ceti proletari imparino a non farsi ingannare dal potere “mascherato”, occorre che facciano –in sintesi- due cose: lottare e istruirsi.
Sono l’ignoranza e la passività gli elementi che impediscono a questi settori della società di prendere coscienza della realtà e che permettono di farsi ingannare da chi fa finta di essere uno di loro (di solito per sfruttarli meglio).