giovedì 19 marzo 2015

Barack Obama, una delusione...preannunciata.

Quando Barack Obama venne eletto per la prima volta Presidente degli Stati Uniti d'America, nell'autunno 2008, gran parte della sinistra italiana reagì con enorme entusiasmo.
Non io.
Infatti, scrissi un articolo sul mio blog di allora in cui spiegavo che non mi facevo troppe illusioni rispetto al nuovo presidente americano.
L'unico motivo di contentezza rispetto all’evento consisteva nel fatto che per la prima volta veniva eletto un presidente di colore, infrangendo un tabù secolare. Ma a parte questo fatto, non mi aspettavo un cambiamento significativo della politica americana, o almeno non per quanto riguarda guerre, sfruttamento, controllo del pianeta, ambientalismo, lotta alla povertà, ecc.

E questo non per disistima personale nei confronti della persona in sé, ma perché dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che il cosiddetto "uomo più potente della terra", in realtà non è affatto tale.
Il fatto stesso che oggi come oggi una persona per poter vincere le elezioni e diventare presidente degli States debba necessariamente usufruire di un massiccio finanziamento da parte delle grandi lobbies economico-finanziarie nonché (ahi, ahi!) militari, lo vincola, una volta raggiunta l'ambita carica, a dover perseguire gli interessi di queste, anche a discapito dei lavoratori e dei ceti popolari, per non parlare delle altre popolazioni (su questo dovrebbero riflettere gli entusiasti sostenitori nostrani dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti; ossia, su come tale abolizione vincolerebbe ancor di più i "politici" ai grandi potentati finanziari, anche e soprattutto stranieri).

La campagna elettorale di Obama è finanziata dai soliti potentati economici, quali banche, multinazionali, ecc. E nessuno ti finanzia per niente. Chi oggi ti dà 10, domani pretende 20. E’ la legge del capitalismo!

Dunque, con una carica così importante come quella che ha occupato, Obama non poteva certo fare come gli pareva. Nel migliore dei casi doveva quantomeno mediare con gli interessi delle elites finanziarie e militari (Eisenhower -il presidente americano durante il maccartismo, quindi neanche lontanamente sospettabile di simpatie a sinistra- dopo essere stato presidente degli USA negli anni 50, disse una volta che il vero potere negli Stati Uniti è detenuto dal “complesso militare-industriale”; al quale i presidenti devono sostanzialmente subordinarsi).

Dei famosi 10 punti che Obama aveva promesso durante la sua campagna elettorale, ne sono stati realizzati in teoria solo tre. Ma anche questi tre in misura talmente limitata da potersi considerare quasi un fallimento.
Parliamo della riforma sanitaria (che si è risolta alla fine in un finanziamento alle assicurazioni private che hanno in mano la sanità americana, per curare quelli che non se lo possono permettere; ma siamo lontanissimi da una sanità pubblica), del ristabilimento dei rapporti con Cuba -ancora in fase iniziale, ma intanto l'embargo americano prosegue (e inoltre Obama sta introducendo le sanzioni pure per il Venezuela)- e della riappacificazione con l'Iran (anche qui si procede con passo di lumaca).

Ma l'elemento che getta maggiormente ombra sul "Premio Nobel per la Pace" è quello della guerra: non solo i militari americani continuano ad occupare l'Afghanistan e stanno ritornando in Iraq, con la scusa dell'Isis, ma in questi anni si sono aperti diversi nuovi fronti di conflitto reale o potenziale, con gli USA in prima fila (Libia prima, poi Siria, poi Ucraina e sembra che gli americani vogliano addirittura attaccare il Venezuela).

Dunque, rispetto all'era Bush Jr la situazione è addirittura peggiorata da questo punto di vista.
Ma ciò accade non perchè Obama è peggiore o più guerrafondaio di Bush.
Il vero motivo è che l'imperialismo economico-politico americano è in forte crisi.

A livello mondiale gli USA stanno perdendo la loro secolare supremazia economico-finanziaria, basata essenzialmente al ruolo del dollaro come valuta di scambio mondiale (ma, alla fine, ai rapporti di forza politico-militari, che imponevano tale condizione): l'emergere dei paesi del BRICS, e in modo particolare della Cina, sta mettendo in discussione tale supremazia. La crisi economica, causata dallo stesso capitalismo finanziario, sta facendo il resto.

Dunque, le grandi lobbies economiche americane stanno diventando particolarmente aggressive.
E Barack Obama -come qualunque altro presidente USA- è costretto ad assecondare le loro esigenze-appetiti.

La storia americana d’altronde insegna che se un presidente si permette di agire un po' troppo di testa sua, può correre grossi rischi.
Abbiamo, infatti, diversi esempi storici di presidenti fatti cadere -o comunque ridimensionati- da queste lobbies (le quali tra l’altro controllano anche tutti -o quasi- i grandi mass-media): da Nixon, con lo scandalo Watergate, a Clinton con la storiella della Lewinsky. E uno di loro ci ha persino rimesso la pelle, ossia John Kennedy.

Tornando a Obama, egli ha suscitato all’inizio comprensibili entusiasmi in gran parte dell’opinione pubblica di sinistra, facendo discorsi che lasciavano sperare in un cambiamento epocale della politica americana.
Ma ciò non è accaduto.
Forse, se negli USA fossero scoppiati dei forti movimenti popolari organizzati, che avessero richiesto a gran voce un altro tipo di politica, molto più progressista, è possibile che Obama avrebbe tentato di fare qualcosa di più.
Ma, nonostante l’aumento della povertà e il crescente malcontento, il popolo americano (come d'altronde quello italiano) non dà per il momento grandi segnali di voler intraprendere un ciclo di lotte.

E quindi teniamoci la delusione-Obama.
In attesa di sapere chi sarà il prossimo presidente che andrà inevitabilmente anche lui (o lei) a servire fedelmente il grande capitale economico-finanziario-militare yankee.

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